Di recente sui social è stata ricordata la Giornata mondiale della traduzione, ricorrenza che a quanto sembra dà occasione essenzialmente a ricordi scolastici e buffi errori. Ma in effetti il 30 settembre è la memoria liturgica di san Gerolamo, Padre della Chiesa e patrono dei traduttori. Nato in Dalmazia, vissuto fra il IV e il V secolo, quindi in un’epoca di libertà religiosa ormai raggiunta, Gerolamo a vent’anni si fa battezzare e inizia un percorso di studi con Donato, il commentatore di Virgilio, che lo fa appassionare alla letteratura latina e alla lettura, interpretazione e studio filologico dei grandi testi classici.



In una lettera del suo ampio epistolario Gerolamo confesserà il suo eccessivo amore per gli autori pagani e per il loro stile raffinato, raccontando una visione in cui veniva rimproverato e punito per questa preferenza: “E Colui che stava sul seggio disse: ‘Menti: sei ciceroniano, non cristiano’”. Ma i suoi studi gli permetteranno di affrontare un grande lavoro di traduzione, per rendere accessibile a tutto il mondo di parlanti latino i testi sacri; già esperto di greco, in un’epoca in cui le classi colte erano da tempo bilingui, traduce il Nuovo Testamento; durante un soggiorno in Siria viene guidato dal vescovo Apollinare ad imparare l’ebraico e l’interpretazione dell’Antico Testamento, alla cui traduzione in latino dedica tempo e fatica per circa quindici anni. Il senso e lo scopo di questo lavoro è ben espresso nel Prefazio della sua festa liturgica: “Per la Tua grazia san Gerolamo penetrò tanto profondamente le divine Scritture, che da questo tesoro poté dispensare l’antica sapienza e la nuova, incitandoci con il suo esempio a ricercare senza fine nelle pagine sacre il Cristo, Tua Parola vivente”. L’opera complessiva è chiamata Vulgata, e costituisce la tradizionale lettura liturgica.



Ogni traduzione comporta vari problemi, per la diversità delle lingue di partenza e di arrivo: esiste tutta una letteratura su tali problematiche. Ma la traduzione da un testo sacro è molto più rischiosa. Gerolamo conosceva la leggenda relativa alla traduzione greca dell’Antico Testamento avvenuta alla Biblioteca di Alessandria in età ellenistica, per volere dei sovrani Tolomei: 72 dotti (sei per ogni tribù d’Israele) in 72 giorni avrebbero effettuato la traduzione separatamente, e nel confronto finale le traduzioni sarebbero risultate identiche, un unico testo chiamato tuttora la Settanta: segno cioè che interpretazione e resa in greco del testo non erano state opera del gusto personale di ciascuno, ma frutto di ispirazione divina.



Nel tradurre dall’ebraico al latino, o dal greco al latino per il Nuovo Testamento, Gerolamo si propose un assoluto rispetto dell’originale, in cui ogni parola corrispondeva alla Parola: per questo la sua traduzione intende seguire la norma del verbum de verbo, essere cioè il più possibile trasparente, perché nessun equivoco porti a traviare il lettore. Una norma di non facile attuazione, anche perché ogni testo può avere delle ambiguità, volontarie o dovute alle peculiarità della lingua. Va detto che oggi noi leggiamo in traduzione italiana, che soprattutto in tempi recenti ha scelte linguistiche diverse da quelle di Gerolamo, o diverse dalla tradizionale resa italiana della Vulgata.

Vorrei fare qualche esempio relativo a passi molto noti del Nuovo Testamento. Il saluto dell’angelo a Maria (Luca 1,28) inizia con chaire, l’imperativo del verbo chairo che significa rallegrarsi ma che all’imperativo è usato abitualmente come formula di saluto, senza particolare connotazione. La Vulgata traduce ave, tipica formula di saluto latina, rimasta anche nella nostra più comune preghiera. La recente sostituzione con “rallegrati”, sostenuta anche autorevolmente, ha creato perplessità: non ultima il fatto che la stessa forma è utilizzata da Giuda verso Gesù nell’Orto degli ulivi (Matteo 26,49): Chaire, rabbì. Qui la Vulgata ha nuovamente ave, e difficilmente si potrebbe pensare ad altro se non a un generico saluto, per quanto ipocrita.

Sempre nel saluto dell’angelo troviamo una parola di difficile traduzione, un participio perfetto passivo che non ha equivalente nel sistema verbale latino, perché indica una condizione, non un’azione: per questo la resa gratia plena, fortunatamente rimasta anche nella traduzione italiana, è geniale, in quanto l’aggettivo rende il meglio possibile una forma non altrimenti traducibile.

Un altro esempio: a proposito del coro angelico che accompagna la nascita di Gesù (Luca 2,14) troviamo nella traduzione latina in terra pax hominibus bonae voluntatis. La consueta traduzione effettuata sul testo latino era “pace in terra agli uomini di buona volontà”, usata spesso come una sorta di formula buonista. Ma in questo caso la traduzione verbum de verbo dal latino all’italiano aveva portato ad un grosso equivoco, attribuendo agli uomini la buona volontà, cioè il voler bene, di Dio. La parola greca indica infatti la preferenza divina, e abbastanza correttamente è ora resa con la perifrasi “amati dal Signore”.

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