Bisogna conoscere il professor Carlo Bellieni, al di là della biografia corposa che cita “insigne neonatologo, docente universitario, esperto di bioetica, membro delle più importanti accademie  e società scientifiche…”. Un uomo mite, umile, con il raro gusto di un’ironia di stampo chestertoniano, che disegna alla Saint Exupéry de Il piccolo principe. I suoi omini-silhouette a matita ornano un librino appena uscito da Cantagalli, esile quanto denso di contenuti e di sostanza: Bada a come parli. Le parole del tuo lavoro. 



Perché per Bellieni, cattolico vero, il lavoro del medico è vocazione, servizio passione. Ma dovrebbe essere così per tutti i lavori. Infatti il libro si apre con una succinta quanto efficace dissertazione sul lavoro “etico”, cominciando dall’analisi etimologica della parola “etica”, oggi usata troppo e a sproposito. Non è sinonimo di “buono”, ma di “virtuoso”. E la virtus, da vir, uomo, è appunto ciò che rende l’uomo tale. Non è virtuoso se il nostro lavoro imita i robot, piegandoci ad azioni ripetitive; se imita i computer, perfetti nell’esecuzione ma perdenti in creatività e immaginazione; se imita gli animali, cioè ci rende pecoroni, asserviti al comportamento del gruppo, cioè ultimamente del potere.



Ci viene ricordato che il lavoro è una fatica tesa al benessere, ma del lavoro stesso, non del resto del vivere, che richiede studio e sacrificio, che non è valutabile solo col guadagno: ovvietà, parrebbe, ma non tanto, se il lavoro è per tutti oggi mèta da rincorrere, arraffare, purché sia; o idolo, strada per successo ed egotismo; o slogan da ripetere in consessi sindacali sempre più diserti e inutili. Bellieni esamina poi, in quattro capitoli svelti, le parole del lavoro, soffermandosi su alcuni ambiti che ben conosce: quello medico, perché è un medico; quello scolastico, perché è un padre; quello economico, perché ci domina tutti, che ci interessi o no. Quello ingegneristico, chissà perché; quello ecclesiastico, perché è un cattolico. Scelta provocatoria, questa, perché fare il prete è sì un lavoro, è opera, senza merito e gratuita, come indica la parola kleròs, clero, “estratto a sorte”, ma non è o non dovrebbe essere un mestiere.



Studiare le parole più abituali cercandone il significato originario non è solo esercizio di curiosità, ma di pensiero. E le parole che usiamo tutti i giorni, “prima che diventassero brutte copie”, ci aiutano a riscoprire l’etica del lavoro. Capiamo per esempio che bisturi e pistola hanno una radice comune, e che i medici non debbano essere assassini parrebbe naturale, ma vaglielo a dire a certe cliniche svizzere; che il feto è “colui che cresce”, e cresce ciò che vive; che disciplina significa imparare, che registro e res gestae, cioè imprese sono la stessa cosa; dunque a scuola si fa avventura, non ci si adegua a noiose compilazioni per burocrati; che strada e strategia sono sorelle, e chi s’incammina ha una visione forte del futuro.