Come si può conciliare il Novecento in quanto “secolo breve” con l’esistenza al suo interno dei “lunghi anni Sessanta” (per usare i titoli di due libri, uno dei quali notissimo)? Un modo di trovare un certo equilibrio in risposta a questa domanda è adottare un metaforico fermo-immagine (dopo tutto, si sta per parlare di un film) quando si rivolga uno sguardo attento all’una o all’altra opera della cultura novecentesca; e mi spiego subito.
Recentemente un centro studi bolognese ha inaugurato la sua nuova stagione con una prosecuzione dell’omaggio al grande regista Ingmar Bergman (1918-2007), sul quale è apparsa l’anno scorso una monografia critica; in connessione con questa pubblicazione è stata proiettata la versione integrale di un film molto significativo del regista svedese, seppure non tra i suoi più noti (e anche una riproposta come questa rientra tra le funzioni di un centro studi). Si tratta di Luci d’inverno, del 1963; e la proiezione è stata seguita da un colloquio con Roberto Chiesi, autore del libro citato, e due studiosi appartenenti ad ambiti intellettuali diversi.
Il film è stato discusso in quanto testo autonomo (“ontologicamente”, come ha detto il filosofo Raffaele Milani), al di fuori di considerazioni storiografiche e cronologiche (ecco il “fermo-immagine” di cui si parlava).
È la storia di poche ore in una domenica invernale dentro e intorno a due chiesette (la prima, dove si svolge la maggior parte dell’azione, è di origine medievale) all’incrocio fra due villaggi immersi nella campagna svedese. Il pastore Tomas, da anni vedovo sconsolato, sente che sta perdendo la fede ma celebra nella piccola chiesa medievale la prima messa; durante la quale anche la maestra Märta, atea e innamorata di lui, partecipa alla Comunione.
Dopo la funzione, Tomas respinge seccamente la tenerezza di Märta, che gli offre una vita rinnovata; ma poi sembra cambiare atteggiamento, e le chiede di accompagnarlo alla seconda messa del giorno nell’altro villaggio. Messa che egli celebra in una chiesa deserta di fedeli, a eccezione di Märta, la quale si inginocchia sul pavimento con una mossa di forte devozione, mentre Tomas scandisce con voce alta e decisa le parole della liturgia. Su questa immagine il film, apparentemente così povero di eventi, si conclude.
Ma lo sfondo culturale di questo scarno film è profondo. In un colloquio con un parrocchiano Tomas aveva precedentemente rivelato la profondità del suo scetticismo: “Ammettiamo che Dio non esista, che differenza c’è? La vita diventa comprensibile. Che sollievo. La morte diventa uno spegnimento, un disfacimento del corpo e dell’anima. La crudeltà degli uomini, la loro solitudine, la loro paura: tutto diventa chiaro, trasparente. L’incomprensibile sofferenza non ha bisogno di spiegazione. Non c’è nessun creatore, nessun reggitore del mondo, nessun pensiero vertiginoso ed immenso”. (questo era il testo originale della battuta, un po’ tagliuzzata per conformismo nell’edizione italiana del film)
Sono parole quasi identiche a quelle pronunziate da Ivan Karamazov in una famosa scena del grande romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov. Di fronte a tutto ciò, ogni spettatore trarrà le proprie conclusioni: quella “oggettiva” (sul senso del film) e quella “soggettiva”, sul senso della propria vita (tale è il doppio effetto di un film autentico come questo; mentre la maggior parte delle pellicole, soprattutto quelle hollywoodiane, non ci provano nemmeno, a raggiungere così intimamente lo spettatore).
Ma in realtà la speranza e la dimensione del trascendente non sono assenti, sotto i discorsi della disperazione; e ciò appare sia all’inizio sia alla fine dello spettacolo. Verso la fine, mentre Tomas si prepara alla sua celebrazione nella seconda chiesa, quella dove solo Märta lo ascolta (ma si può ricordare che il grande scrittore spirituale americano Ralph Waldo Emerson amava pregare nelle chiese deserte), il suo sagrestano gli esprime con umili parole quella che egli presenta come una sua idea, sopravvenutagli in notti insonni: che cioè la maggiore sofferenza di Cristo, al di là della Passione, sia stata l’atmosfera di radicale incomprensione nella quale Egli è vissuto.
In realtà, dietro le poche ed esitanti parole dell’uomo del villaggio, che comunque esprime così, indirettamente, la sua comprensione della situazione in cui Tomas si trova, emerge l’eco (ovviamente calcolata da Bergman) di quella che, in un certo periodo del pensiero novecentesco, era nota come “teologia della solitudine”; dunque, non una forma di disperazione o nichilismo, bensì la descrizione di un percorso spirituale.
Ma, al di là di ogni teologhema o filosofema, quella che resta più impressa è la straordinaria scena iniziale: nella chiesetta antica la mezza dozzina dei partecipanti alla messa si avvicina alla balaustra intorno all’altare, si inginocchia e riceve la comunione dalle mani dell’officiante. La macchina da presa si concentra a turno sui visi, duramente segnati dalla vita, dei singoli comunicanti, poi sul volto e sulle mani di Tomas: a ogni passaggio (per una mezza dozzina di volte) vediamo l’assunzione dell’ostia e del vino dal calice; a ogni passaggio (due volte per ogni comunicando) si odono, esattamente scandite e ripetute, le parole del rito sacro. Così si comprende il titolo forte ed originale (esteticizzato con queste Luci d’inverno nella versione inglese e poi in quella italiana), che è una parola danese composta il cui significato essenzialmente è: I comunicanti. Non ricordo una rappresentazione filmica così intensa di quella ripetitività che è l’essenza del rito cristiano come affermazione di fiducia: sinonimo, più semplice e concreto, della parola “fede”.
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Dalla proiezione del film di Bergman, organizzata dal Centro Studi Sara Valesio (Cssv) in collaborazione con la Cineteca di Bologna nella Sala della Cultura di Palazzo Pepoli a Bologna