Per essere veramente universali bisogna parlare del proprio paese, e pochi come Biagio Marin incarnano questa massima. Gran parte della sua lunga vita (1891-1985) la trascorse a Grado, la piccola isola dell’Adriatico nordorientale, un punto nell’orizzonte estremo dell’Italia, una breve riva che si spalanca al mar grando, culturalmente sospesa tra Mitteleuropa, tradizione veneta, influsso slavo. Poesia di concentrazione assoluta, la voce di Marin ha intuito fin dall’inizio la possibilità di fondersi totalmente con la materia del suo canto: il suo favelâ graisan (parlare gradese), che si avvale di pochissime parole, ha echi universali ed eterni, proprio perché ridotto all’essenziale, a ciò che conta davvero: la sua lingua “allarga in campo semantico ciò che restringe in campo lessicale”, realizzando così la sua ambizione di “fare di Grado il cosmo”, come vide Pier Paolo Pasolini, tra i primi a segnalare la grandezza di Marin.



La sua poesia ha un respiro mistico: si giova di ripetizioni, rituali e liturgiche, come le cantilene o le litanie ripetute nella comunità del villaggio: la nona m’ha dito / le parole più grande (la nonna m’ha detto le parole più grandi); parole sempre da riscoprire, espressioni di poche, elementari certezze, ma sufficienti per vivere e per vivere bene.



È luogo comune della critica che Marin abbia scritto da vecchio le sue poesie più alte e che la sua produzione sia stata sovrabbondante e pletorica. Senz’altro le sue ultime raccolte segnano i livelli più elevati raggiunti dalla poesia italiana contemporanea, in dialetto o in lingua (amava dire che non esiste poesia dialettale), eppure leggendo i testi della sua prima silloge, Fiuri de tapo, del 1912, non tardiamo a riconoscere i modi del Marin settantenne e oltre, quelli per esempio de La vita xe fiama, del 1970, dove leggiamo versi come questi:

La vita xe fiama / e duto la brusa / el fior su la rama / el sol che sul fior el se pusa. // Ardor e sinisa se alterna / la fiama la crea e la distruse / al dolor la vita conduse / ma la zogia, dopo, xe eterna. // No’ esiste una vita / de là de ‘sto fogo / de là de ‘sto zuogo / de vanpe e de la sénere sita. // El fogo xe grando / el lumina i sieli sirini / el scolda, a rimando, / i cuori, per duti i matini. // ‘Na vanpa, una sola, / in duto ‘l creato: me vardo beato / comò che la svola.
(La vita è fiamma / e tutto brucia, / il fiore sul ramo, / il sole che sul fior si posa. // Ardore e cenere si alternano, / la fiamma crea e distrugge, / al dolore la vita conduce, / ma la gioia, poi, è eterna. // Non esiste una vita / di là da questo fuoco, / di là da questo gioco / di vampe e di cenere zitta. // Il fuoco è grande, / illumina i cieli sereni, / riscalda, di riflesso, / i cuori, per tutti i mattini. // Una vampa, una sola, / in tutto il creato: / io guardo beato / come essa vola.)



Ma, a citare una poesia o un’altra, sembra di far torto a Marin, come se si fosse costretti a scegliere se tagliare un arto o un altro: come ha notato Adriano Guerrini (nell’antologia Poesie, Garzanti, 1981), dopo aver letto un libro del poeta gradese segnando le composizioni più riuscite, ci si trova alla fine ad averle segnate quasi tutte, tanto è alta la sua voce e soprattutto come il suo canto sia un fluire ininterrotto: si tratta, davvero, di “una vampa sola” e quel mare è “el mar de l’eterno”. Egli era veramente un golfo, come diceva spesso, capace di accogliere in sé tante vite diverse, imprimendo in esse un segno indimenticabile e potente, come ricorda con gratitudine il suo “figliolo d’anima” Claudio Magris nel carteggio con Marin (Ti devo tanto di ciò che sono, a cura di R. Sanson, Garzanti, 2014).

La cifra esistenziale di Marin è il suo sì alla vita, pronunciato anche nelle circostanze più tragiche, come la morte in guerra del figlio Falco, che gli detta dei versi altissimi:

Figio, onbra de chília / no’ la dura un momento, / anche se mile milia / ha fato ‘l bastimento. // E i òmini xe avari, / e ogni vento li move / a nove cove / su le rive dei mari. // Tracia sul mondo nissun lassa, / gnanche i cuori sovrani: / i vinti va lontani, / e duto al mondo passa. // Tu ‘vivi vinti quattro ani, / el cuor comò un zardin, / quel ciaro lume zentilin / consola i nostri afani.
(Figlio, ombra di chiglia / non dura un momento, / anche se mille miglia / ha fatto il bastimento. // E gli uomini sono avari, / e ogni vento li muove / a nuove cove/ sulle rive dei mari. // Traccia sul mondo nessuno lascia, / neanche i cuori sovrani: / i venti vanno lontani, / e tutto al mondo passa. // Tu avevi ventiquattro anni, / e il cuore come un giardino, / quel chiaro lume gentile / consola i nostri affanni.)

Animato da un profondo senso religioso, naturale e divino ad un tempo, il poeta insegue la vita tra la domanda al Mistero e il ringraziamento a Dio “de le ore de pena / e de quele beate”, fino ad annullarsi in un infinito senza parole:

Preghiera a Dio no’ xe parola: / xe fioridura silensiosa in sielo / el  vêrzesse nel sol d’un fior de melo / e, in sima d’un roser, de ruosa sola. // Le parole el silensio le distruse / e solo nel silensio Dio se prega / cô l’ánema se piega / a êsse solo luse. // Se prega persi, sensa sintimento, / fiumi che score verso la so pase, / forsi un cantâ che spanto in aria, tase, / abandonào nel vento.
(Preghiera a Dio non è parola: / è fioritura silenziosa in cielo / l’aprirsi nel sole di un fiore di melo / e, in cima ad un rosaio, di una rosa sola. // Le parole il silenzio le distrugge / e solo nel silenzio Dio si prega / quando l’anima si piega / ad essere solo luce. // Si prega persi, senza sentimento, / fiumi che scorrono verso la loro pace, / forse un cantare che, sparso in aria, tace, / abbandonato nel vento.)

La poesia di Marin abbraccia tutte le asperità e le contraddizioni della vita, sciogliendole in sì commosso a Dio, a cui chiede che la sua morte sia “comò ‘l scôre de un fiume in t’el mar grando.” La vita è un dramma meraviglioso che si consuma sotto lo sguardo di un Signore misericordioso:

No’ me despiase d’êsse nato / de ‘vê godúo del sol de oro / del canto de le stele lento in coro, / che in note ciare me feva beato: // de ‘vê magnào el pan apena coto / crostoloso, co’ fighi duti un miel, / vardando in alto el siel / co’ un navegâ de nuvoli, devoto. // Tanti ani hé vardao el mondo scôre, / più lisiero o più peso, / nel silensio più teso, / quasi incantào de l’ore. // Meravegioso el drama / soto el gno  vardo, / che gera vivo o tardo, / senpre in vogia de fiama. // No’ me despiase / d’êsse ‘rivào al ponente, / dopo tante solane su le spiase / e tanto mar ridente. // Rinasserè in mile fantulini, / cô sona a l’alba i matutini, / co’ i fiuri marsulini de la tera / e co’ le vanpe che brusa la sera. // In Dio se nasse e nel so cuor se more / e fora d’Elo nissun cage: /  el sovo rèo l’ha bone màgie, / e quel so cuor xe senpre in fiore.”
(Non mi dispiace d’esser nato / di avere goduto del sole d’oro / del canto delle stelle lento in coro, / che in notti chiare mi faceva beato: // di aver mangiato il pane appena cotto / croccante, coi fichi tutti un miele, / guardando in alto il cielo / con un navigare di nuvole, devoto. // Tanti anni ho guardato il mondo scorrere, / più leggero o più pesante, / nel silenzio più teso, / quasi incantato delle ore. // Meraviglioso il dramma / sotto il mio sguardo, / che era vivo o tardo, / sempre in voglia di fiamma. // Non mi dispiace / di essere arrivato al ponente, / dopo tanto sole sulle spiagge / e tanto mare ridente. // Rinascerò in mille fantolini, / quando suonano all’alba i mattutini, / coi fiori marzolini della terra / e coi fuochi che bruciano alla sera. // In Dio si nasce e nel suo cuore si muore / e fuori di Lui nessuno cade: / la sua rete ha buone maglie, / e quel suo cuore è sempre in fiore.)