Ci sono due ragioni per parlare di un libro di (per esempio) narrativa o saggistico-narrativa, senza farne una recensione formale. O l’opera in questione è un simbolo (di tutto un movimento di pensiero, un frangente politico-sociale e simili), oppure è un sintomo. Solo le grandi narrative meritano il rango di simbolo, e quelle le lasciamo da parte.
Invece il saggio narrativo White, pubblicato l’anno scorso da Bret Easton Ellis e poco dopo tradotto in Italia con lo stesso titolo, “Bianco” (ma non ho visto la versione italiana, dunque le traduzioni dei passi citati sono mie) merita una conversazione, perché è sintomatico.
White è un saggio biografico-culturale: un “biosaggio” se vogliamo (come si chiama biopic un film a base biografica), ma senza pretese di “romanzo di formazione”. Il concetto di formazione, infatti, evoca qualcosa di virtuoso ed edificante, mentre questa è la storia di una per così dire dis-formazione (senza fare nessun moralismo; anzi). Infatti questo narratore-protagonista, e autobiografico, è tutt’altro che edificante: consumatore casuale ma intenso di droghe più o meno “ricreative”, robusto bevitore, con una vita erotica certo non promiscua ma abbastanza movimentata. Insomma, un “bad boy”, come l’autore si auto-definisce un paio di volte non senza un certo compiacimento (ma questo “bad boy” omosessuale non esita a opporsi alla militanza ideologica fondata sulle identità sessuali).
Questo ragazzaccio di gran talento (nato nel 1964) trascorre un’esistenza, come si dice, “bi-costiera”, cioè la vita di chi si trasferisce continuamente dai bar, ristoranti, cinema e salotti di Los Angeles a quelli di New York, e viceversa. Vita mondana, ma non oziosa: Bret Easton Ellis (d’ora innanzi EE) è stato un romanziere di successo, con una mezza dozzina di romanzi a suo credito (e un esordio brillante a vent’anni); ma adesso è soprattutto uno sceneggiatore, un critico cinematografico, televisivo e musicale (musica pop), e un compilatore di incessanti tweet che ne determinano l’autorevolezza come critico dei media, e attraverso di essi della società.
White è un po’ ripetitivo, ricolmo com’è di dettagli di ogni tipo: titoli di film, di canzoni e di rivistine; fogge e marche di abiti, accessori, cosmetici e simili (questo “eccesso” era stato anche il tratto distintivo, e a suo modo affascinante, dei romanzi di Easton Ellis; ma per questo libro forse ci sarebbe voluta qualche sforbiciata da parte della casa editrice Knopf).
D’altra parte, il saggio è scritto con la particolare, elegante vivacità di chi controlla lo stile della colloquialità senza scadere nel semplicismo; e vi è un’abilità notevole nell’alternare le immagini della società contemporanea con repentini salti indietro (tipo flashback cinematografici); sono appunto questi salti che danno al testo una tinta romanzesca.
Ma il valore sintomatico del libro consiste nel suo sguardo semplice e diretto: lo sguardo del bambino che ha il coraggio di dire che il re è nudo, lo sguardo che satireggia il regime intellettuale del Pensiero Unico, sempre più oppressivo.
Già il titolo suona (almeno in inglese) come una sfida: nel linguaggio corrente dell’intellighenzia universitario-saggistico-giornalistica in Usa, col suo razzismo dell’anti-razzismo, un termine come “bianco” (soprattutto quando si riferisce a un bianco di sesso maschile) è solitamente pronunziato con l’ombra di un sogghigno; anche da parte di molti bianchi! (masochismo ideologico).
Ma lasciamo parlare il libro, con una scelta di passi.
“Il tono di superiorità morale adottato dai guerrieri della social-giustizia, e da una Sinistra sempre più scatenata, è di regola sproporzionato rispetto all’oggetto effettivo della loro indignazione; non mi ha sorpreso, allora, che questa odiosa tendenziosità logora-nervi abbia cominciato a creare un’autoritaria polizia del linguaggio”.
“C’era una volta quello che, a ricordarlo adesso, sembra un momento magico, quando uno poteva esprimere le sue opinioni, renderle pubbliche, aprire una discussione generale; ma la cultura attuale è così timorosa di fronte a tutti i tipi di discorso, che ogni iniziativa simile tende a provocare attacchi”.
“Donald Trump è certamente un presidente post-imperiale; laddove le opposizioni contro di lui da parte dei media rappresentanti l’establishment non sono mai state più reazionarie di adesso: appartengono al vecchio Impero” (la prima sezione del libro di Easton Ellis si intitola “Impero”; ma non c’è la pesantezza degli ideologi nostrani: il rapporto fra Impero e post-Impero è qui visto in termini di impressioni, immagini e contatti umani, senza pedanterie).
“Come scrittore, non posso non credere in un’incondizionata libertà di parola […] Quando si comincia a decidere come la gente possa o non possa esprimersi, si apre la porta di una stanza buia dentro la Ditta, una stanza da cui in realtà è impossibile scappare. Non stanno forse arrivando a controllare i vostri pensieri, e poi i vostri sentimenti, e poi i vostri impulsi? E non arriveranno infine a controllare anche i vostri sogni?” (strano che Easton Ellis non richiami qui l’opera di Orwell; ma il punto importante è un altro: la possibilità stessa che si possa evocare questa immagine, dice pur qualcosa sulla situazione pericolante della libertà di parola al cuore delle società democratiche occidentali).
“I sentimenti non sono fatti; e le opinioni non sono crimini; e l’estetica conta ancora per qualcosa. E la ragione per cui sono uno scrittore è quella di presentare un’estetica: cose che sono vere senza necessariamente essere verità di fatto, o immutabili. E poi, anche le opinioni possono cambiare: anche se, a sentire i media, dovrebbero restar fisse per sempre” (corsivi nell’originale).
“L’allontanamento di chiunque non la pensi esattamente come gli altri è andato al di là della protesta e resistenza: è diventato una forma di fascismo puerile, e risulta sempre meno tollerabile accettare queste tattiche esclusionarie”.
“Orribile idea, che al tempo stesso è un grosso affare, del management della reputazione: per cui si assumono ditte che si occupino di dare forma a un Tu più gradevole, più relazionabile (relatable). Questa nuova prassi, dedicata a truffare il sistema dei rapporti sociali, è appunto una frode: un bizzarro tentativo di cancellare ciò che è soggettivo e al tempo stesso ciò che è oggettivo” (questo è forse il solo punto nel libro in cui, dallo spigliato anti-intellettualismo di Easton Ellis, emerge un’intuizione filosofica da sviluppare).
In conclusione, il miglior modo di comprendere la sintomaticità del libro di Easton Ellis è un ragionamento a fortiori: se anche un homo mediaticus come lui, colto e intelligente certo, ma senza ambizioni attivistiche, elucubrazioni ideologiche e solennità etiche, trova impossibile non ribellarsi alla cultura di conformismo repressivo che lo circonda, quanto ci vorrà prima che il discorso imperante (in Usa come in Europa) cambi almeno in parte? quanto ci vorrà prima che prenda forma un diverso tipo di intellettuale?