A ogni uomo un soldo è uno dei più bei romanzi di Bruce Marshall, nato in Scozia nel 1899, morto in Francia nel 1987. Pubblicato in Gran Bretagna nel 1949 e in Italia per la prima volta nel 1952 da Leo Longanesi che con lungimiranza ne intuì il valore, è stato poi più volte rieditato da Jaca Book (l’ultima edizione è del 2021). Come altri scrittori anglosassoni dell’Otto-Novecento, Gilbert K. Chesterton, Evelyn Waugh, Christopher Dawson, Graham Greene, anche Marshall è un convertito. Dopo la conversione scoprì nel suo Paese una Chiesa cattolica perseguitata, discriminata, una piccola minoranza che dava la sua testimonianza di fede e carità in una società ostile. Fu questa comunità che accolse il diciottenne Bruce, studente di college che si era imbattuto nel cattolicesimo attraverso la lettura delle opere del cardinale John Henry Newman, attraverso il quale scoprì che nulla era più ragionevole della fede cattolica. Dotato di un talento non indifferente e di uno stile brillante, degno della migliore tradizione umoristica britannica, egli è stato un coraggioso apologeta – frizzante e commovente – della fede cristiana cattolica.
La vicenda narrata in A ogni uomo un soldo si snoda tra la prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra e rileva le trasformazioni e i travagli di quel mondo, visti attraverso gli occhi del protagonista, il sacerdote Gaston. Dopo anni di missione in Africa egli presta servizio come cappellano aggiunto nella parrocchia di Saint-Clovis, nel centro di Parigi. Vive modestamente in una soffitta vicina alla chiesa, è abituato a stare vicino alla gente comune, in particolare ai poveri e a chi soffre; si discosta dagli altri preti della parrocchia che si sentono “a posto”, rivelando così una mentalità chiusa e moralistica.
Gli capita di sostenere spiritualmente una giovane modella e diventa amico di un comunista incallito che si rammarica di non essere riuscito a convertire, ma che gli salverà la vita quando gli uomini della Resistenza stanno per giustiziarlo. Soccorre e poi riesce a trovare lavoro a un’indossatrice fuggita da Vienna perché ebrea: le sue colleghe e la sua padrona di casa – cristiane – l’avevano cacciata dopo l’Anschluss. Tutto questo mentre il clero dal pulpito indugia su temi tradizionali, ligio ad una visione statica della realtà.
Gaston non è certo un modernista, ma è spinto dalla convinzione che i preti devono essere “gli anelli di congiunzione della misericordia e non dell’ira”, quella misericordia di Dio che egli stesso definisce “una fune lunga e forte, e non è mai tardi per aggrapparvisi”. Con la sua incredibile semplicità e una leggera ironia, mai pesante né sarcastica, Gaston suscita ripetutamente nel lettore una sorta di tenerezza. Vede la grazia santificante come una scala a pioli calata giù dal cielo perché gli uomini possano salirvi. Quasi smarrito di fronte al mondo nel quale vede affermarsi una nuova concezione fredda e dura della vita, esclama in cuor suo che in confronto “gli errori di Calvino gli sembravano il non plus ultra dell’ortodossia”.
Eppure Gaston non condanna aprioristicamente questo mondo, cerca di comprenderlo valorizzando quel che di bello e di pulito conserva, come quando paragona i vestiti multicolori delle ragazze alla moda a fiori capovolti. “Gli piaceva sempre pensare del suo prossimo tutto il bene possibile”. Ad un prete scoraggiato, egli risponde che “per la Chiesa c’era sempre speranza, e anche certezza. La Chiesa era tutta una lunga pazienza”.
La figura del prete è molto ben indagata da Marshall, in questo come in altri romanzi. “Erano deboli, e di uomini deboli Dio aveva costruito la Chiesa. Ed era proprio questo il lato meraviglioso della Chiesa: che lo Spirito Santo riuscisse a tenerla insieme, quando Dio l’aveva costruita d’uomini così deboli. E quando gli uomini deboli stavano ai suoi altari, Dio cingeva sempre la Chiesa con le braccia perché non avesse a disgregarsi”.
Alla fine del libro l’anziano pretino, zoppo in seguito ad una vecchia ferita riportata nel corso della Grande Guerra e quasi cieco, quindi non più in grado di servire nella parrocchia di Saint Clovis, si reca in metropolitana verso il convento cui è destinato come cappellano e nel frattempo riflette sul perché nella parabola degli operai dell’undicesima ora (Matteo 20,9), tutti vengono pagati con un denaro indipendentemente dall’opera prestata, parabola che dà il titolo al romanzo. Scopre che “La ragione era questa: che tanta parte del lavoro era ricompensa a se stessa, come tanta parte del mondo era castigo a se stessa”. Come dire che il lavoro dell’uomo è Dio a giudicarlo con un’unità di misura che non è la nostra. E Gaston “si rese conto che lui, da prete, era stato molto felice. E anche adesso (…) sapeva che come cappellano residente dalle suore sarebbe stato molto felice”.
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