A volte, per scendere nelle profondità che la semplice grattata di una superficie opaca non consente di raggiungere, è necessario, come la letteratura ci insegna a fare fin dalla sua nascita, invertire il rapporto tra finzione e verità. Assegnare alla prima i galloni dell’autorevolezza e alla seconda riservare un trattamento guardingo, sospettoso, quasi ritroso. Anzi, verrebbe quasi da dire, in termini aritmetici, che in certi casi il beneficio debba essere reciproco: all’aumentare del fittizio, del velo di menzogna che ricopre le storie frutto dell’ingegno di un autore, è destinato ad aumentare anche il grado di verosimiglianza che il lettore può trarre da quella vicenda.



D’altro canto, se così non fosse, esisterebbero le cosiddette opere distopiche? Se la deformazione del reale si limitasse a canzonare delicatamente l’esistente, senza sferzarlo a dovere a suon di scandali e paradossi, meriterebbe, questo genere, di rientrare a pieno titolo nella definizione di grande letteratura? L’assurdo, insomma, è spesso il presupposto della logica. Lo sanno bene Orwell, Kafka, Huxley, Bradbury.



Lo sa bene – probabilmente per la sorpresa di qualcuno – anche il nostro Gesualdo Bufalino, artefice di un racconto singolarissimo, fuori dagli schemi, emblema perfetto della versatilità impareggiabile del suo genio, eppure inusuale, per certi versi, rispetto alla cornice narrativa entro cui è stato solito collocare la sua scrittura e, più in generale, rispetto alle usanze degli scrittori italiani.

E, in effetti, Le visioni di Basilio ovvero La battaglia dei tarli e degli eroi, al di là di un titolo che mostra certe reminiscenze leopardiane, singolare lo è sin dalle sue premesse. Un minuscolo ma famelico insetto è responsabile della repentina sparizione di gran parte del patrimonio librario mondiale. Mentre, tra lo sgomento generale, l’opinione pubblica si interroga sul perché di quella che appare sinistramente come una piaga divina, o il beffardo contrappasso di una Natura stanca di sopportare le ferite infertele dai suoi terribili ospiti, l’ordine mondiale rischia di crollare, impotente testimone di un tragico e progressivo depauperamento della propria memoria. Per decisione dei governi di ogni angolo del pianeta, viene stabilito che i residui della nostra millenaria cultura vengano trasferiti e custoditi in un luogo apparentemente inaccessibile: un monastero situato sulla cima del Monte Athos, a guardia del quale viene posto il monaco Basilio. Sulla vetta dell’altura divenuta celebre per aver fatto da sfondo all’arrogante affronto del sovrano persiano Serse nei confronti degli dèi – per via della decisione di costruire dei canali per attraversare, invece che circumnavigare, il suo aspro promontorio – e designata a divenire simbolo di riscatto per l’umanità, la missione dell’umile guardiano si tramuta ben presto in una irresistibile tentazione.



Vinto dalla curiosità e dal desiderio di sfogliare quelle preziosissime pagine, Basilio si rende, involontariamente, complice della loro distruzione, attirando la voracità dei tarli, i quali, senza concedergli il tempo di riporre i volumi nella loro sede, li divorano del tutto. Afflitto dal senso di colpa e disperato per la piega quasi irreparabile che gli eventi hanno preso, il monaco oppone un ultimo, straziante gesto di resistenza. Cospargendosi di miele per concentrare su di sé il mostruoso sciame, si getta senza remore tra le acque fatali del Mar Egeo.

Nella parabola di Basilio risiede, certamente, una componente fortemente biografica, che afferisce alle abitudini da avido lettore dello stesso Bufalino, che per decenni preferì rinchiudersi nel recinto sacro della letteratura piuttosto che esporsi alle insidie del mondo esterno. Tuttavia, tra le pieghe del sacrificio offerto al mondo dal guardiano del monastero si cela qualcosa di ancora più nobile, quasi una vocazione mistica, un destino già scolpito nell’eternità.

Basilio, infatti, non sopravvivendo al tesoro che era stato incaricato di proteggere, ne diventa insostituibile tramite per la conservazione. La fine della sua vita è connaturata all’eterno presente in cui l’opera letteraria ha situato la propria esistenza. Non è forse vero che la scrittura è così indipendente da renderla capace di affrancarsi persino da colui che l’ha prodotta? Con il suo potere di scavalcare, ignorare, ridisegnare i limiti del tempo, di stagliarsi oltre il suo inesorabile e consumante scorrere, l’inesauribile vita della memoria letteraria – incarnata dalla mossa estrema di Basilio, dal suo sincero servizio reso attraverso lo sprofondare negli abissi –, è, al tempo stesso, la garanzia che continuerà ad esistere qualcosa in grado di farci essere intimamente umani. La riaffermazione di un principio, di un’idea, di un sogno in cui credere. Un monito al nostro tempo, che sempre più spesso preferisce ignorare o demolire piuttosto che costruire. Senza tenere conto che il futuro, invece, nasce dalla conoscenza delle tracce che il passato si è impegnato a consegnarci.

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