L’ultimo saggio di Byung-Chul Han, Der Geist der Hoffnung. Wider die Gesellschaft der Angst (“Lo spirito della speranza. Contro la società della paura”), non ancora disponibile in italiano, è stato pubblicato dalla casa editrice Ullstein e si apre, in maniera inattesa, con l’immagine di un dipinto di Anselm Kiefer, dedicato al filosofo stesso, il cui titolo è “La coscienza della pietra” (Das Bewusstsein der Steine). Le pietre, che l’artista ci offre in molte delle sue opere, rappresentano un simbolo archetipico, in cui abita la coscienza, dopo il naufragio della storia umana nelle guerre. Sfogliando il testo, tuttavia, si constata che anche nel prosieguo le pagine sono intervallate da altre immagini dei lavori di Kiefer. Dunque, che senso ha un libro sulla speranza, nato dalla collaborazione di un filosofo e un artista?



La domanda è intrigante, anche perché in questi giorni, a Palazzo Strozzi, prosegue la mostra fiorentina di Kiefer, Angeli caduti (fino al 21 luglio 2024), che trae il nome da una tela di oltre sette metri di altezza, dal titolo Engelssturzt ovvero “La caduta dell’angelo”. Essa descrive il combattimento biblico tra l’arcangelo Michele e gli angeli ribelli e narra l’eterna lotta tra Bene e Male. La tela, accogliendo i visitatori della mostra nel cortile rinascimentale d’ingresso, ne definisce in questo modo una sorta di originaria cifra mitopoietica.



Byung-Chul Han, di origine coreana, è oggi una delle voci più importanti della cultura tedesca ed è un riferimento mondiale in ambito filosofico, non solo per la cultura occidentale. La nostra società – egli sostiene – è dominata dalla paura e preannuncia un futuro oscuro, per assenza di speranza. In altri termini, le prospettive di vita appassiscono e danno luogo a una mera sopravvivenza. Proprio per questo occorre evocare con forza lo spirito della speranza, che sola ci può guidare verso altri orizzonti. Essa, tuttavia, nel pensiero filosofico non sempre ha goduto del pieno riconoscimento, in particolare per ciò che attiene la sua portata trasformativa, se non rivoluzionaria. Spesso è stata considerata come un sentimento o uno stato d’animo tendente all’inerzia: chi lo nutre resterebbe inattivo. Non così per Han, che invece ripone in essa una forte fiducia; la speranza – egli argomenta – infonde uno spirito di bellezza e delicata audacia, che produce poi la capacità autentica di pensare. Diversamente dall’ottimismo, che manca di determinazione, essa si anima di energia e si attiva verso l’orizzonte delle possibilità; contrasta così il diffondersi del fantasma della paura, un clima esacerbato recentemente dalla paura dei virus. Ma ciò che preoccupa Han è soprattutto la pandemia della paura (die Pandemie der Angst), più che la paura della pandemia (die Angst vor der Pandemie). La comunicazione digitale dei social, inoltre, non corrobora la socialità, anzi la abbatte: noi siamo meglio collegati gli uni agli altri quando non siamo connessi. I rapporti crescono con i contatti, ma noi purtroppo viviamo in una società individualizzante, che ci isola e che ha perso, nel mondo online, la dimensione interpersonale (die berührungslose Gesellschaft), stimolando processi di “narcisificazione” (Narzissifizierung). La paura, così, si inasprisce e spesso degenera in disperazione. Tuttavia – osserva Han – proprio nella totale oscurità cresce il germoglio della speranza, che ne rappresenta l’antidoto, ricostruendo i legami sociali e coniugandosi al plurale con un “Noi”.



Proprio su questo punto c’è una forte sintonia tra Han e Kiefer. Nelle opere di quest’ultimo, infatti, avviene il completo rovesciamento del reale, in una dialettica che dalla distruzione riaccende la vita. Paradossalmente – scrive Gabriele Guercio nell’introduzione alla edizione italiana del ciclo di lezioni che Kiefer ha tenuto al Collège de France – le macerie attestano “non tanto la transienza, ma la resilienza dell’arte stessa”, capace di sopravvivere alla propria apparente distruzione. E le macerie compaiono in molte opere di Kiefer, come in quella rappresentata nel saggio di Han, che ci avverte che l’innalzamento e la caduta sono tutt’uno (Steigend, steigend, sinke nieder).

Nella mostra fiorentina, inoltre, alcune opere contengono il colore blu che è – osserva Han citando Ernst Bloch – l’autentico colore della speranza (die Farbe der Hoffnung), diversamente dal tradizionale verde. Anche la dominanza di toni dorati che si irradiano in alcune di esse conferisce loro il senso prezioso della speranza. Dalle macerie scaturisce inevitabilmente una nuova vita: solo dal buio completo può derivare la luce. Di qui la necessità dell’artista di fare i conti, collettivi e personali, con la storia della Germania, che egli narra, nella mostra fiorentina, con le fotografie in cui espone sé stesso nella posa del saluto nazista.

La speranza, dunque, nutre i sogni, quelli ad occhi aperti, che creiamo nel giorno e non durante la notte e che dischiudono “il Possibile, il Nuovo, Ciò che sta venendo, il Non ancora nato” (das Moegliche, das Neue, das Kommende, das Ungeborene).

C’è anche un’ultima consonanza tra i due autori del libro. Essa è data dalla bellezza, che rappresenta il medium della speranza ed è capace di disvelare il “Mondo possibile”, oltre l’esistente. Proprio nel fascino della Bellezza – prosegue Han citando una frase di Adorno dal tono profetico – si rispecchia l’immagine dell’Onnipotenza. La speranza si lascia guidare dall’amore, cioè dal sentimento che platonicamente si rivolge alla bellezza, che è l’idea più elevata della conoscenza. Ed è proprio quest’ultima a prendere per mano la speranza.

Poiché sono un uomo di scuola, non posso non notare, infine, come queste due idee, Bellezza e Speranza, radicate entrambe nel nostro corpo e non appartenenti solamente a quella che generalmente viene considerata come una dimensione intellettiva, siano parte essenziale del messaggio educativo. Quest’ultimo, infatti, si rivolge al possibile dell’esistenza di ciascun alunno, nella speranza di favorire la capacità di costruire il futuro. Come suggerisce Cristina Dell’Acqua, la bellezza rappresenta la missione delle scuole stesse, ovvero ciò che le scuole, quelle con la S maiuscola, dovrebbero insegnare, per chiamare alla luce la bellezza vissuta dai giovani. Anche questa è una lettura possibile dell’opera a quattro mani di Han e Kiefer.

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