In esergo del terzo romanzo della sua Space Trilogy, intitolato Quell’orribile forza. Una fiaba moderna per adulti e ultimato ottant’anni fa, nella Vigilia di Natale del 1943, Clive Staples Lewis mise due versi tratti dal poema Ane Dialogue betuix Experience and ane Courteour (The Monarche) del poeta-cavaliere scozzese Sir David Lindsay of the Mount (1490-1555): “L’ombra di quell’orribile forza / è sei miglia e più di lunghezza” (ed. D. Hamer, Edinburgh-London 1931, vv. 1751-1752). Così il poeta ritrae la proterva costruzione della “torre di Babele” (Gen 11,1-9) da parte degli uomini di tutta la terra i quali, uniti da un unico linguaggio, presunsero di ascendere fino al Cielo – una delineazione poetica che ricorda l’antico commento di rabbi Eliezer al racconto biblico: “Raduniamoci e facciamo una torre e foggiamo un idolo sulla sua cima, mettiamo una spada nella sua mano, e sembrerà come se esso stia intraprendendo guerra contro l’Onnipotente” (Bereshit Rabbah, cap. 38). La descrizione della terribile ombra proiettata dalla torre funge, nel poema di Lindsay, da correlativo oggettivo della smisurata tenebra interiore che avvolge i pensieri del cuore dei superbi che posero mano a tale costruzione – a prescindere dall’altezza effettiva della torre stessa (cfr. The Monarche, vv. 1753-1754).



Lewis allude al racconto biblico della torre di Babele per delineare, nel suo romanzo, il profilo spirituale titanico-luciferino di un gruppo tecnocratico britannico denominato N.I.C.E. (National Institute of Coordinated Experiments) che, sotto l’apparenza di un’attività filantropica al servizio del bene comune della popolazione, commette in segreto crimini e nefandezze d’ogni sorta pur di ottenere ciò che vuole: fa uccidere un uomo, rinchiuso in carcere per omicidio, ne fa mozzare la testa e, dopo averla collegata in laboratorio ad un complesso apparecchio bioelettrico, fa in modo che il cervello del cadavere si riattivi e la sua bocca pronunci dall’oltretomba parole malvagie di imperioso comando, che solo una cerchia ristretta di iniziati ha il diritto di ascoltare e il dovere di eseguire senza batter ciglio. Con l’aggravante che tali tecnocrati sanno che la mente con cui sono entrati in contatto attraverso il medium della testa parlante del morto e a cui si sono rivolti come ad un oracolo, sottomettendole la propria volontà, non è affatto la mente di un uomo, bensì quella di spiriti maligni (i “macrobi”, nel linguaggio della fiaba lewisiana). Nel romanzo, la cooperazione dell’élite tecnocratica con il demoniaco mira ad introdurre l’umanità in una nuova era, dove “il corpo sta per diventare tutto testa” e “l’umanità sta per diventare tutta Tecnocrazia”.



Servendosi genialmente del genere letterario della fiaba, al fine di favorire anche nel lettore più positivista la “volontaria sospensione dell’incredulità”, Lewis sviluppa qui le riflessioni filosofiche del suo saggio The Abolition of Man (I ed., 1943), aprendo il registro teologico (assai realistico) dell’intervento provvidenziale di Dio nella Storia e del combattimento, da parte di coloro che amano Dio, contro le Potenze dell’aria e il loro principe (Ef 2,2), lo spirito del male che opera negli uomini ribelli; in questo caso, nei membri del (a detta di tutti) gentile e benemerito Istituto N.I.C.E. Siamo certi che a Lewis non sia mai interessato nulla né del complottismo né della conoscenza delle “profondità di satana” (Ap 2,24): per questo riteniamo che il suo occhio cristiano, semplice e chiaroveggente, fu in grado di scorgere, già ottant’anni or sono, i segni dei tempi e l’incombere di un pericolo realmente possibile per l’umanità nel futuro (più o meno) prossimo, vale a dire l’insorgere di una casta tecnoscientifica di “Condizionatori”, i quali, nello sforzo di progredire nel dominio della Natura, tenteranno di trasgredire il limite donatore di senso e la legge inscritta nella natura umana, per dominare e condizionare la natura umana stessa, producendo artificialmente negli uomini il tipo di coscienza che essi vogliono produrre. L’estremo razionalismo di questo progetto titanico si rovescia necessariamente – nota Lewis – in cieco irrazionalismo: “Nel momento, dunque, della vittoria dell’uomo sulla Natura, troviamo l’intera razza umana sottomessa ad alcuni individui, e quegli individui sottomessi a ciò che in se stessi è puramente ‘naturale’ – ai loro impulsi irrazionali. La Natura, svincolata dai valori, domina i Condizionatori e, mediante essi, tutta l’umanità. La conquista della Natura ad opera dell’uomo si rivela essere, nel momento del suo compimento, conquista dell’uomo ad opera della Natura” (The Abolition of Man, New York 1947, pp. 42-43).



Tale conquista e abolizione dell’uomo non può che comportare una grave de-personalizzazione dell’uomo stesso. Da parte sua, Romano Guardini ha notato che si forma sempre un “vuoto”, tuttavia non dove la persona svanisce – giacché l’essere persona non può essere in alcun modo estirpato dall’uomo –, ma là dove la persona viene misconosciuta e la sua dignità ignobilmente calpestata. Questo vuoto non rimane un irenico campo neutrale: “Ciò – scrive Guardini – significherebbe che, in certo modo, l’uomo diventerebbe un essere naturale e la sua potenza un’energia della natura. Il che non è possibile. In verità quel vuoto rappresenta un’infedeltà divenuta abitudine permanente e là dove manca il padrone, si avanza un’altra iniziativa: quella demoniaca” (Il potere, Brescia 1963, p. 19). In quest’ottica non sorprende, dopotutto, che l’estremo razionalismo tecnoscientifico – che si spinge oltre i confini del logos della natura umana –, e l’irrazionalismo demoniaco possano andare tranquillamente a braccetto.

Tornando al romanzo di Lewis, è così che i membri della cerchia ristretta del gruppo tecnocratico-esoterico, dinanzi alla testa dell’uomo morto che proferisce il comando dato dallo spirito maligno: “Adorate!”, iniziano a muovere ossessivamente i loro corpi secondo una sequenza ritmica di ripetute prosternazioni, in alto e in basso, alle quali uniscono le loro voci in un inquietante canto rituale di adorazione del serpente antico: “Ouroborindra! Ouroborindra! Ouroborindra ba-ba-hce!”. Qui la fantasia di Lewis attinge al simbolo, di matrice gnostica, dell’“uroboro”, il serpente che, mordendo la propria coda, realizza la figura di un cerchio. Costoro hanno cercato l’unità contro l’Onnipotente e l’hanno trovata nell’unica lingua di adorazione del serpente, dopo essere stati dispersi e confusi nella reciproca incomprensione: “A coloro che hanno disprezzato il Verbo di Dio, sarà tolto anche il verbo dell’uomo”, proclama, suo malgrado, uno degli uomini ribelli nel culmine tragicomico della Babele raffigurata nel romanzo di Lewis.

In un articolo di qualche mese fa Ross Douthat, editorialista del New York Times, rilegge tra l’altro gli sviluppi scientifici relativi alla cosiddetta “intelligenza artificiale” proprio alla luce di questo romanzo di Lewis, sottolineando che “l’idea che ambizione tecnologica e magia occulta possano avere una relazione più stretta di quanto ci si aspetti sembra piuttosto rilevante per la strana era nella quale siamo entrati recentemente – dove i razionalisti della Silicon Valley stanno diventando ‘postrazionalisti’ […] dove la gente parla di innovazioni nell’IA nel modo in cui potrebbero parlare di un golem o di un genio [djinn]” (R. Douthat, This C. S. Lewis Novel Helps Explain the Weirdness of 2023, The New York Times, 16/06/2023).

L’impressionante accelerazione del progresso tecnoscientifico – si pensi a PRIME, il recente impianto di un microchip nel cervello di un uomo ad opera della start-up Neuralink, volto a configurare una precisa “interfaccia cervello-computer”, che ci ricorda quel genio di Gigi Proietti quando esclamava: “Fenomenali poteri cosmici, in un minuscolo spazio vitale!” – pone inevitabilmente la questione della distinzione tra la realtà teleologica dell’uomo e la simulazione statistica della macchina, ed esige una sempre più chiara presa di coscienza di che cosa significhi che l’uomo è persona.

(1 – continua)

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