Nei suoi libri Lewis non seduce, ma ragionevolmente e appassionatamente conduce il lettore, rischiarandone lo spirito e la mente. La prosa dei suoi saggi e dei suoi romanzi scalda il cuore e lo colma di speranza, di fede, di amore, di desiderio di gioia e di giustizia. Per questo (e per molto altro), rispetto ai numerosi anti-maestri del nostro tempo, egli è un maestro, anzi, visto che non avrebbe gradito ricevere questo titolo, diremo che egli è un uomo, che parla al cuore dell’uomo con la stessa semplicità con cui parla al cuore del bambino, e al cuore del bambino con la stessa serietà con cui parla al cuore dell’uomo.
In particolare, nei suoi romanzi Lewis dipinge magistralmente la drammatica della conversione del cuore, della mente e della vita dei personaggi scaturiti dalla sua fervida immaginazione, come nel terzo volume della sua trilogia fantascientifica, Quell’orribile forza. Una moderna fiaba per adulti (That Hideous Strength, 1945). Il racconto si apre con la giovane protagonista, Jane – sei mesi appena trascorsi dal giorno del suo matrimonio con Mark Studdock – che si trova tristemente sola a rimuginare sulla frequente assenza da casa del marito per motivi di lavoro e sull’ormai abituale indifferenza di lui nei confronti di lei. L’avventura del matrimonio non era ancora iniziata, ed era già finita. Ma, provvidenzialmente, Jane incontra il “Direttore”, il professor Ransom che, nel romanzo, è il personaggio più di ogni altro simile e conforme a Gesù (il vocabolo inglese “ransom” significa “riscatto” – un implicito riferimento a Cristo Gesù, “che ha dato sé stesso in riscatto per tutti”, 1Tm 2,6). Quando Jane confessa a Ransom il proprio rancore e la propria mancanza di amore nei confronti di Mark, ribellandosi per di più alla richiesta di Ransom che la esortava ad aiutare il marito per cercare di salvarlo e sottrarlo dal circolo di uomini malvagi del quale egli sconsideratamente era entrato a far parte, Ransom le rivolta la frittata, rispondendo: “lei non trascura l’obbedienza per mancanza di amore, ma ha perduto l’amore perché non ha mai cercato di obbedire”.
L’amore vero dell’uomo e della donna esige reciproca obbedienza e, come l’argilla nelle mani del vasaio (Rm 9,20-21), obbedienza al Volere del Padre che a lui e a lei ha donato la fiamma divina d’amore da custodire. Grazie alle parole di Ransom, Jane a poco a poco si converte a Dio e torna ad accogliere l’amore vero per Mark: “E se lei fosse stata, in fondo, una cosa – una cosa concepita e inventata da Qualcun Altro e apprezzata per qualità del tutto diverse da quelle che aveva deciso di considerare le qualità del suo ‘vero Io’? […] La parola ‘Io’ si riferiva a un essere la cui esistenza lei non aveva mai neppure sospettato, un essere che non esisteva ancora pienamente ma che era atteso. Era una persona (non quella che lei aveva pensato) ma anche una cosa – una cosa creata, creata per piacere a un Altro e in Lui a tutti gli altri –, una cosa che veniva creata in quello stesso momento senza sua scelta, in una forma mai neppure sognata. E la creazione avvenne in una sorta di splendore e di pena, o di splendore e di pena insieme, per cui Jane non capì se fosse nelle mani che plasmavano o nella massa modellata”.
Alla conversione di lei segue infine anche la conversione di Mark: “All’inizio, quando [Jane] aveva attraversato l’arido mondo polveroso in cui albergava la sua mente, lei era stata come una pioggia di primavera; non aveva sbagliato ad aprirsi a quella freschezza. Aveva sbagliato solo quando aveva presunto che il matrimonio in sé gli desse il diritto o il potere di appropriarsene. Adesso capiva che era come pensare di comprare un tramonto acquistando il campo dal quale lo si è visto. […] Quella stessa visione scientifica dell’amore che aveva impedito a Jane l’umiltà della sposa aveva egualmente impedito a lui l’umiltà dell’amante. […] Poi gli tornarono in mente certi momenti di indimenticabile fallimento della loro breve vita matrimoniale. Aveva spesso pensato alle ‘lune’ di Jane, come le chiamava. Questa volta finalmente pensò alla propria goffaggine importuna. […] Scopriva la siepe dopo aver colto la rosa, e non solo l’aveva colta, ma l’aveva sciupata schiacciandola tra le dita calde, goffe e avide. Come aveva osato? […] In Jane aveva preso per freddezza quella che ora gli sembrava la sua pazienza. Il ricordo pertanto gli bruciava. Ora la amava”.
L’esperienza vissuta della Gioia di Cristo conduce Lewis ad affermazioni chiare e sfidanti sul tema della “felicità”: quando in un programma radio della BBC (pubblicato nel 1944 con il titolo Answers to Questions on Christianity) gli fu chiesto da H.W. Bowen: “Quale delle religioni del mondo dà ai suoi seguaci la felicità maggiore?”, Lewis rispose con ironia autenticamente cristiana: “Finché dura, la religione dell’adorazione di se stessi è la migliore. […] Come probabilmente sa, non sono stato un cristiano da sempre. Non mi sono diretto verso la religione perché mi facesse felice. Ho sempre saputo che una bottiglia di Porto sarebbe in grado di farlo. Se vuole una religione che la faccia sentire veramente a suo agio, non le consiglio di certo il Cristianesimo”.
Lewis riformula questa verità antropologica fondamentale sulla questione della “felicità” in modo tanto semplice quanto profondo in una proposizione da lui scelta come titolo di un breve articolo che, prendendo l’avvio da un fatto storico particolare di cui egli venne a conoscenza, si traduce presto in una riflessione sulla condizione umana e in un’acuta diagnosi sullo stato della società e della civiltà occidentale contemporanea: “Non abbiamo nessun ‘diritto alla felicità’” (We Have no ‘Right to Happiness’, in The Saturday Evening Post, 1963). Si può apprezzare meglio il peso specifico e il significato di queste parole se si rammenta il fatto che sono state vergate nell’ultimo documento scritto da Lewis per la pubblicazione e le cui bozze egli corresse appena una settimana prima di morire. Esse pertanto costituiscono, di fatto, una sorta di testamento spirituale dell’umile uomo di fede e geniale uomo di lettere.
Il nucleo di queste sue riflessioni, a ben vedere, è e resta profondamente agostiniano. “Molti uomini – scrive Agostino – ricorrono a Dio nella preghiera, ma non cercano Lui, bensì i doni che Lui elargisce: la salute, una moglie benestante e buona, dei figli, la ricchezza”. Quindi prosegue: “Se Dio è buono perché ti ha dato gli altri beni, quanto più sarai felice quando ti avrà dato Se stesso? Desiderasti tante cose da Lui; ti chiedo, desidera anche Lui. Queste cose, infatti, non sono più dolci di Lui, né in una qualche misura sono paragonabili a Lui. Pertanto colui che antepone Dio stesso, dal quale ha ricevuto le cose per le quali è felice, a tutte queste cose che ha ricevuto, questi invoca Dio nella verità” (Esposizioni sui Salmi, 144, v. 18, par. 22).
Gli scritti di Lewis testimoniano discretamente che il Cielo non è una cupola chiusa, ma c’è sempre nel Cielo una finestra aperta su di noi e possiamo esserne consapevoli se ci rivolgiamo al Padre in atteggiamento di fiducioso abbandono filiale, come sa chi visse e vive l’esperienza dell’amore vero, che sempre è inscritto nell’onda lunga che conduce al Cielo, come avvenne nella storia d’amore di lui e di lei, quando decisero di sposarsi il 21 marzo 1957 in una stanza d’ospedale, anche se a lei l’anno precedente era stato diagnosticato un terribile cancro alle ossa che le aveva già distrutto il femore, l’anca e si era esteso ad entrambe le gambe, e quando lui pregò che il cancro di lei si arrestasse e lui iniziò stranamente a perdere calcio dalle ossa e lei a ricalcificare le sue lesioni (e i medici definirono la temporanea guarigione di lei un miracolo). Fino al giorno della morte di lei in pace con Dio, “poi si tornò all’etterna fontana” (Dante, Paradiso, XXXI, 93). Lui si chiamava Clive Staples (per gli amici, Jack), lei si chiamava Joy.
(2 – fine)
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