Il numero di febbraio di Luoghi dell’infinito, il mensile di itinerari di arte e cultura dell’Avvenire, è dedicato a Agostino, il fascino del vero. La scelta è più che mai opportuna e conferma la bontà della scelta che il settimanale Il Sabato prima e la rivista internazionale 30 Giorni fecero, a partire dagli anni 90, nel riproporre l’attualità di Agostino. Una scelta decisamente inusuale allora. Ne ho parlato ultimamente nel mio blog rievocandone le ragioni. Ragioni che stanno all’origine del mio volume Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (Marietti, 2013).
Ora Luoghi dell’infinito, che accoglie i contributi dei maggiori esperti su Agostino, esordisce con un breve saggio di Massimo Cacciari dal titolo La lotta tra cielo e terra per la patria che ci attende. Il testo è bello e merita di essere letto perché chiarisce, in modo esemplare, l’attualità della prospettiva agostiniana. Scrive Cacciari:
“L’inquieto cuore di Agostino è ancora il nostro. Infinitamente più di quanto non lo sia lo stoicismo drammatico del suo Seneca. Nella Cristianità per giungere a una voce simile bisogna attendere Pascal – a meno di non osare accostarlo a chi gli è totalmente opposto, Dante. La filosofia della storia e la teologia politica dell’Occidente cristiano stanno tra questi due poli, sono governate dalla polarità formata da questi due geni immensi. Le due Città sono la città dove ancora abitiamo. Nessun dualismo in Agostino, nessuna gnosi che fissi astrattamente le categorie in base alle quali giudicare la storia. Entrambe le Città divengono; anche quella di Dio conosce diverse età e diversamente si intreccia con quella dell’uomo. Esse staranno perplexae et permixtae fino alla fine dei tempi. Pace tra loro in hoc saeculo non potrà darsi. Ogni momento della storia è segnato dalla loro complessità irriducibile. E dove la Città di Dio, d’altronde, potrebbe mai procurarsi i propri cives se non attingendo da quaggiù, nella città dell’uomo? Vi è un perenne scambio di cittadini tra le due Città. Ciascun abitante di quell’unica sede che comprende entrambe può trasformarsi in cittadino dell’una o dell’altra, passare dall’una all’altra. Non regna securitas alcuna neppure nella Città di Dio. Anche tra i discendenti di Sem e Iafet si trovavano dei contemptores Dei, così come tra quelli di Cam dei Suoi cultores”.
La “mescolanza” tra gli abitanti delle due Città è ciò che impedisce ogni visione utopica, ogni idealizzazione di un Regno terreno, sia esso clericale che mondano. Gli imperi, sacri o atei, non rappresentano il Regnum Dei. Spiega Cacciari:
“Una potente riserva escatologica, dall’immenso significato anche politico-pratico, nasce da questa visione. Nessuna Civitas deve essere venerata, nessun Impero considerato sine fine. Dare a Cesare? Sì, ma ciò che propriamente nulla conta per la nostra salvezza. Non solo – nessuna Civitas sarà mai vera res publica. Essa è una congregazione di interessi diversi e contrastanti. Un regime politico riuscirà magari meglio di altri a comporli razionalmente, a costituire un coetus multitudinis rationalis, ma mai diventare quell’Impero solidale con l’opera di conversione che è missione della Città di Dio, cui Dante anela. I cittadini di quest’ultima mai riconosceranno alcun Sole nel Politico che governa la Città dell’uomo”.
Agostino riflette qui la posizione “legale e rivoluzionaria” (Ratzinger) che caratterizza il cristianesimo dei primi secoli, quella di Tertulliano, Ilario, Atanasio, Lattanzio. Un cristianesimo distante dall’ideale dell’Impero “romano-cristiano” di Teodosio e di Eusebio di Cesarea. Si tratta di un realismo che non coinvolge solo la natura dell’impero. Anche la Chiesa che è parte, ma solo parte, della Civitas Dei, rimane pellegrina. Anch’essa non è una società perfetta. Così Cacciari:
“Lo stesso realismo che domina la visione della Città dell’Uomo informa di sé il giudizio sui destini della Città di Dio. Essa è insecura quanto i negotia e la pace-armistizio dell’altra. Molti reprobi, molte simiae di quella Simia che è l’Anticristo nuotano nel suo mare. La lotta, l’agòn si combatte anche nella Città di Dio, anzi appare qui ancora più drammatico e decisivo. Avviene come se ognuna delle due città agisse da hostis e hospes nello stesso tempo nei confronti dell’altra. Si combattono e ospitano insieme. Il rapporto politico amico-nemico viene così innalzato da Agostino alla sua vera altezza teologica, da cui soltanto può essere compreso”.
La commistione delle due città, il fatto che esse non possano identificarsi con la Chiesa e lo Stato, come farà l’agostinismo politico medievale, impedisce la hybris, la tracotanza di chi presume di aver raggiunto la perfezione. Impedisce, altresì, il manicheismo, cioè la condanna apodittica dello Stato identificato aprioristicamente con quella degenerazione della civitas mundi che è la civitas diaboli. Quello che è certo per Agostino, come scrive Ratzinger in L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, è che “la sua dottrina delle due civitates non mira né a ecclesializzare lo Stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine”. In questo modo Agostino non si preoccupa di elaborare una costituzione cristiana del mondo, l’idea di una “cristianità”. “Qui non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli Stati di questa terra sono ‘Stati terreni’ anche quando sono retti da imperatori cristiani […]. Sono Stati su questa terra e quindi ‘terreni’ e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene”.
In tal modo il potere e il sacro vengono disgiunti, la teologia politica che è al centro della religio antica viene spezzata. Il cristianesimo, separando i Regni, rivoluziona lo scenario storico. Come scrive ancora Ratzinger in Chiesa, ecumenismo e politica: “Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianismo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica”.
Questo distacco dalla teologia politica, da ogni forma di assolutizzazione del potere, clericale come secolare, l’agostiniano Ratzinger la trae dal critico per eccellenza di Carl Schmitt, Erik Peterson, agostiniano anche lui, come abbiamo qui ricordato. Si tratta di una prospettiva analoga a quella di Cacciari, il quale così conclude il suo articolo, con una nota di pessimismo:
“La scena della nostra storia è segnata dalla rottura tra autorità e potere, che Agostino teorizza contro la religio civilis pagana. Nessuna potenza politica, nessun re o duce possono assumere un qualsiasi valore sacrale. La giustizia di cui possono essere capaci, e che è loro dovere perseguire, ha natura essenzialmente amministrativa e distributiva. Questo limite costitutivo del Politico, come ogni confine, spinge però inevitabilmente al proprio oltrepassamento. E allora ecco riaffermarsi la figura del civis futurus. La nostra casa è sempre quella che deve ancora venire, la nostra vera patria è quella che ci manca. Il cittadino di entrambe le città, che nel tempo coesistono, è comunque un pellegrino, abita là dove è anche sempre straniero. Gli uni protesi a quella conversione che donerebbe certa speranza, gli altri all’impossibile di una Kallipolis in terra. Un’energia straordinaria si sprigiona propria da tale contraddizione, così come da quella in generale tra Città di Dio e civitas hominis. Il civis futurus è forza sradicante, evoca a sé moltitudini ex omnibus gentibus, mette in marcia e al lavoro l’intero globo, trasforma, innova. È rivoluzione permanente. Quando l’Occidente si appiattirà sulla dimensione dei soli scopi tecnicamente perseguibili perdendo quel pensiero del Fine ultimo che ha imposto al potere mondano un confine insuperabile, tacerà insieme a Agostino lo spirito d’Europa. Forse stiamo da tempo vivendo nel loro silenzio”.
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