Nella produzione saggistica di Massimo Cacciari i temi filologici e teologici non sono nuovi all’intreccio con riflessioni sistematiche che guardano all’attualità civile e politica e alla forza orientante dell’attività ermeneutica. Lo studioso, per come interpreta Cacciari lo svolgimento di questa funzione nell’agire sociale, persino nell’arrocco certosino e polveroso su biblioteche, archivi e musei, è pur sempre una mente che milita il suo tempo e lo attraversa facendosene attraversare.



Questa intuizione di metodo la troviamo, del resto, anche in quei non occasionali interventi degli anni Settanta e, in parte, Ottanta, in cui Cacciari sembrava meglio dedito a decodificare i rapporti tra politica, economia e diritto. Il Cacciari, prima spirito anticonformista in Potere Operaio e poi indipendente nel Partito Comunista, trapuntava i suoi scritti di riferimenti apparentemente insoliti che potevano essere ascritti al rapporto tra spazio e potere: le occupazioni di fabbrica e i retaggi della questione agraria, le politiche industriali e l’urbanizzazione.



Non sfugge al filo conduttore di un cinquantennio di pensiero critico La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, per i tipi di Einaudi (Torino, 2019). Si tratta di una profonda ma essenziale dissertazione sulla relazione tra soggetto e comunità, riletta stavolta nel prisma della simbologia e delle arti figurative umanistiche, pre-rinascimentali e rinascimentali. Non è un caso che a corredo del bel volume ci sia anche una parte di immagini idealtipiche di quel periodo storico e delle concezioni intellettuali diffuse che lo nutrivano. Al punto che il corredo grafico non è appendice, ma esemplificazione dinamica dei ragionamenti proposti.



Lo dimostra, tra i molti esempi possibili, l’attenzione dell’umanesimo a plasmare, geograficamente e urbanisticamente, teoreticamente e praticamente, la città ideale. Su di essa, come sarà poi compiutamente per l’uomo vitruviano di Leonardo, convergono saperi affinati dalla tecnica e istanze immanenti all’animo umano che toccano la vivibilità, la partecipazione politica, la divisione sociale del lavoro.

La città ideale risente del dualismo tra comunità del genere umano e regno di Dio: muove nell’orizzonte di senso del credere, ma si sostanzia nel cercare di vivere con libertà e autonomia. Magari vi si applicano ancora norme attinte dalle Decretali pontificie, ma la sua valenza conviviale e ordinatrice al tempo stesso è “qui e ora”. La piazza e le mura non contano meno del campanile.

La storia del pensiero politico europeo, allora, non può darsi senza riferimenti alle immagini, trasposizione secolare di concetti canonico-teologici, come le icone della cristianità medievale. La parola nasce per ordinare il mondo su cui si misura, creandone per ciò solo uno nuovo: il linguaggio è dialettica di istituzione e genesi, di participio e divenire. E allo stesso modo l’immagine non solo non si limita a riprodurre: essa, anzi, per essere riproducibile (farsi simbolo, icona, che deve poter essere riprodotta) ha bisogno di raggiungere e contemporaneamente superare l’idea della realtà che raffigura. Un simbolo religioso non è solo l’oggetto che lo costituisce o il divino cui si riferisce: è una posizione tra le due, di mediazione fisica, teologica e linguistica. Non è perciò una cosa bruta e nemmeno il divino cui ambisce di rimandare: è un altro livello nella stessa catena che rende possibile.

In tal modo, il saggio di Cacciari, che pure ha solide coordinate storiografiche e di storia delle dottrine e delle istituzioni politiche da cui muovere, vira all’universale e diventa incessante scavo sul linguaggio e sull’epistemologia nel mondo dell’umanesimo. Si tratta di un mondo in cui la mente umana non nega la trascendenza, ma si accorge della finitezza afflittiva di ogni scorciatoia che guardi solo ad essa, evitando il tarlo del ragionare, del confrontarsi, del prender parte.

È un sentire che, se guarda all’universo, certo non si nasconde il luogo della sua origine, la prateria che scaturisce la sua genesi. Europa, ancora. Al confine tra il pluralismo medievale di autorità e livelli di governo, ordinato comunque “sub Deo”, e le speranze di un’epoca di fervido cimento intellettuale.

La “felicità” di questa tesissima faglia critica è nei suoi esiti e nei suoi sviluppi, ma essa ci appare quasi disperante nei conflitti che la muovono, nel non riuscire ancora a focalizzare il “radicalmente altro”, l’Altro per cui non sgorghi la clausola del mutuo riconoscimento. L’Umanesimo non è perciò palliativo di stimoli e contraddizioni, ma loro lievito benefico che rilascia concordia e amicizia solo sul respiro della lunga distanza.

L’inquietudine cui allude Cacciari non è la mancanza delle radici o, forse ancora peggio, la loro rimozione imposta dall’oblio, dalla frenesia o dalla smodata mole di informazioni inutili che (mal) governa i giorni nostri. L’inquietudine dell’umanesimo giuridico e politico è all’opposto il nutrimento che consente a quelle radici di ramificarsi sino a sfiorare il cielo, andandogli incontro e mai pretendendo di afferrarlo una volta per tutte.