Nell’opera di Roberto Calasso (come in molti dei libri che pubblicava) questo sembra attirare – come potrebbe attirare, e a maggior ragione, un qualsiasi ragazzo o studente in erba – sin da subito: che in essa si parla di ciò di cui solitamente non si parla. Non importa se del mito greco o indiano, delle pentole di bronzo nella civiltà cinese, di turismo o terrorismo, di illuministi, secolaristi o “credenti lucidi”, i suoi libri ruotano intorno a poche essenziali questioni. “La violenza e il sacro”, innanzitutto, nelle parole del titolo di un autore della sua casa editrice Adelphi, René Girard. Cose di cui raramente, con rarissime persone si può parlare seriamente.
Bastino, a riassumere, queste poche righe di Giorgio Montefoschi: “Ka e L’Ardore sono le due opere centrali che stanno alla base dello spericolato progetto di questo scrittore italiano, unico nella sua perseveranza a voler considerare non perduto proprio quello che l’Occidente immagina di poter trascurare stoltamente: cioè il rapporto fra il visibile e l’invisibile, dunque il mistero”. A proposito, Calasso in una delle ultime interviste a Che tempo che fa (!) citava i versi di Dante sulla fede (“la definizione più densa che ne sia stata data”): “Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi” (Dante, Paradiso XXIV, 64. Si veda come Luca Doninelli chiosava riprendendo gli stessi versi).
E da qui si dovrebbe partire, se è vero, come ha notato Davide Brullo su Il Giornale, parlando – a pochi giorni dalla scomparsa dell’editore – della “guerra santa” mossagli tra gli altri da alcuni intellettuali su Avvenire, che era proprio questo in fondo “l’unico ring […] verso cui Calasso dimostrava interesse”. Affrontando direttamente la questione, come ha saputo fare Giacomo Alessandrini sulle pagine de L’intellettuale dissidente: “Gli è che in Italia, dove il sacro batte un colpo giusto per le facezie vaticane, meglio se con code elettorali, condito a cannella e incensini, Adelphi è stata operazione necessaria. Ma tanto più è stato necessario che i suoi ideatori avessero un ché di marcatamente non italiano (non diciamo anti, ché sarebbe troppo speculare). Tra le qualità di Calasso c’è l’esser stato per molti versi molto poco italiano e malgrado ciò (o forse per questo?) aver imposto il catalogo Adelphi, organico libro assoluto per cercatori d’assoluto. Ecco che cosa urtava ed urta i fragili nervi di allora e di oggi. In un milieu in cui la questione si dibatte al massimo col ‘non possiamo non dirci cristiani’ […] di assoluto, ma chiamatelo Dio, divino, ϑέιον, φύσις… non importa un bel niente a nessuno. Irrita, al più”.
Con o senza il pedigree cattolico, infatti (o quello più semplicemente secolare, di cui Calasso ha diverse volte svelato il fondo fideistico), rimane quello che osservava Fleur Jaeggy, moglie dell’editore milanese commentando uno dei suoi racconti: “fra tutti, gli adolescenti sono quelli più attratti dall’assoluto”. Quelli che non hanno ancora una patria ben stabile, forse ancora solamente in cielo, o nella mente (come non pensare alle strambe ambizioni, ad esempio, del protagonista del penultimo, trascinante romanzo di Dostoevskij, L’adolescente).
Lo si legge in diverse opere di Emil Cioran: “All’uscita dall’adolescenza, si è fanatici per definizione; lo sono stato anch’io, e fino al ridicolo”. E in origine dovette essere, anche per Calasso, un confronto con il “naufragio della filosofia” – che giovanissimo s’occupava di “malati di nervi”, traduceva e commentava Nietzsche e Stirner (l’opera dei quali, “ribelli interiori”, è “una grandiosa parodia della filosofia stessa”, che convergerà nel primo tassello della sua opera work in progress, La rovina di Kasch). E Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire “è il libro che, oggi come ieri, ogni sedicenne dovrebbe portare in tasca” (è bello, tra l’altro, leggere in questi giorni persone a lui vicine definirlo affettuosamente un “ragazzo pratico”, o un “venticinquenne all’assalto” nel suo lavoro di editore).
E ancora, non fu forse l’appena ventitreenne Carlo Michelstaedter, a concludere la sua ardente tesi La persuasione e la rettorica, con le parole: “Ma gli uomini temo siano sì ben incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir della tranquilla e serena minore età”.
Tutto questo anche se, nel concatenarsi vorace degli eventi a quell’età, le ragioni di sorvolare le questioni essenziali della vita (esiste qualcos’altro, qualcuno al di fuori di me? cos’è il bene e cos’è il male?) non fanno che moltiplicarsi.
Magari però, in quella sua quotidianità a un ragazzo potrebbe anche capitare per le mani – magari in forma di vecchio e dimenticato cimelio di famiglia – un’edizione de L’insostenibile leggerezza dell’essere; e fare esperienza di quell’affermazione (si trova in un saggio dello scrittore ceco, L’arte del romanzo), secondo cui “se è vero che la filosofia e le scienze hanno dimenticato l’essere dell’uomo, è tanto più evidente che con Cervantes ha preso forma una grande arte europea che altro non è se non l’esplorazione di questo essere dimenticato” (libro che leggerà anche perché, certo, “Franz cavalcava Sabina e tradiva sua moglie, Sabina cavalcava Franz e tradiva Franz”…).
È attraverso fugaci incontri con opere come queste che ci si avvicina (o ci si inizia, come Calasso scrisse nella provocatoria postilla a L’innominabile attuale) a quel mondo attraente e lontano, ammiccante e sprezzante, che è la Adelphi e i suoi libri color pastello. E che si approssima ad una certa idea di quel luogo dello spirito che ha nome di “letteratura”.
Il fervore che ha suscitato, negli ultimi giorni, la scomparsa di questo “maledetto toscano” – parole di un altro autore riscoperto da Adelphi, Curzio Malaparte –, ribadisce l’influenza che la sua opera ha avuto su molte persone, molti “ignoti lettori nell’innominabile attuale”. Come ha scritto Stefano Salis sul Sole 24 Ore, essa “è uno di quei vuoti che si allargano improvvisamente, e costringe chiunque ad affrontare la perdita in maniera originale e, se possibile, costruttiva”.
In libreria si trovano ora gli ultimi suoi due libri, autobiografici, Memé Scianca e Bobi, quest’ultimo dedicato al suo maestro, fondatore e ideatore di Adelphi, Roberto Bazlen. Vi si trovano aneddoti illuminanti e da tenersi stretti: ad esempio, come quando Bazlen chiese al giovane Calasso di far rilegare la sua consunta copia dell’Abbandono alla provvidenza divina dell’“oscuro gesuita” Jean-Pierre de Caussade.
“Certamente era il libro che aveva più praticato – scrive Calasso –, insieme all’I Ching, di cui rimangono numerosi esagrammi nei suoi diari. Ma Bazlen non aveva mai osservato la liturgia né la dogmatica cattolica – e dire I Ching equivaleva a nominare l’intera Cina, quale era affiorata, migliaia di anni fa, nelle screpolature sul dorso di alcune tartarughe. Era forse questa la risposta all’impropria domanda di Montale, che si chiedeva se Bazlen era stato un mistico. Parole dette da chi aveva pilotato la sua vita sull’autoprotezione e una certa pavidità. Bazlen invece l’aveva fondata su un irrimediabile non sapere, esposto alle onde in ogni direzione. Era stato il suo modo di diventare vivo”.
Non sono, certo – come ha scritto Rosita Copioli sull’Avvenire – “le teorie, né la filosofia né le credenze, che vanno cercate in una figura così straordinaria per la cultura e la letteratura, non solo italiane”. E immagino così se, lasciatisi a quell’abbandono irreversibile, nell’oblio di sé, sia in fondo necessario o importante determinare cosa sia sapere, e cosa non sapere.
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