Nel marzo del 1963 Italo Calvino, nelle vesti del personaggio Amerigo Ormea, testimonia un incontro effettivamente avvenuto con la Piccola casa della Divina Provvidenza (meglio nota come Cottolengo) di Torino dieci anni prima, quando vi si era recato in qualità di scrutatore, nel suo racconto La giornata d’uno scrutatore.
A metà giornata il protagonista inizia a capire «che il confine di cui gli si chiedeva il controllo fosse un altro: non quello della “volontà popolare”, ormai perduto di vista da un pezzo, ma quello dell’umano». Sono, in particolare, due fatti a far nascere nella sua mente un fiume di interrogativi: la notizia, ricevuta per telefono durante la pausa pranzo, della fidanzata Lia che aspetta un figlio e la vista dei bambini deformi che incontra lungo le corsie. Non può dunque esimersi dal chiedersi: (da che punto in poi un essere è davvero un essere?), una potenzialità biologica, cieca (da che punto un essere umano è umano?), un qualcosa che solo una deliberata volontà di farlo essere umano poteva far entrare tra le presenze umane.
Immerso in queste domande, Amerigo, a un certo punto, posa il suo sguardo su una strana coppia: «Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito d’un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale ma in qualche modo – pareva – rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare».
Questa visione in qualche modo lo attira: «Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. […] teneva lo sguardo fisso su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato».
E capisce, soprattutto, la ragione per cui quel ragazzo demente pareva ad Amerigo avere un valore che nessuno degli altri “esseri” sembrava avere. La risposta all’incessante interrogativo (da che punto un essere può essere ritenuto umano?), trova qui una risposta:
«Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».
È l’amore che il contadino nutre per il figlio a dargli valore.
Sorge qui una domanda cruciale sulla relazione fra l’autore e il protagonista. Certe prese di posizione successive dell’autore fanno cogliere un sostanziale allineamento della posizione di Calvino e di quella di Ormea: una decina d’anni dopo il racconto, Calvino scrive un articolo sul Corriere della Sera dal titolo “Che cosa vuol dire rispettare la vita” che vuole essere una risposta a un altro articolo apparso sullo stesso quotidiano sei giorni prima, scritto da Claudio Magris e intitolato “Gli sbagliati”. La posizione di Calvino apparsa sul giornale milanese è anticipata da una lettera scritta da Parigi pochi giorni prima della pubblicazione dell’articolo, in cui egli manifesta una forte indignazione per la posizione di Magris sull’aborto: «Due cose soprattutto mi dispiacciono negli articoli degli avversari d’una nuova legislazione per i casi d’interruzione della gravidanza. La prima è un’idea della “vita” e della “natura umana” come qualcosa che ha un senso e un valore per sé, indipendentemente da ciò che fanno gli altri per renderla veramente “vita” e veramente “umana”. Si dimentica facilmente che non si è esseri umani per diritto naturale; lo si diventa, bene o male, perché altri esseri umani vogliono aiutarci a diventare tali».
E continua: «Esso sarà “umano” solo in quanto attraverso il sorriso, la parola, le relazioni affettive, l’aiuto, l’apprendimento, il gioco, l’autorità, il lavoro d’altri esseri umani entra a far parte di quella collettività fuori dalla quale l’individuo della specie “homo sapiens” non è altro che un animale sbigottito e frenetico, disadatto a qualsiasi ambiente».
Per queste ragioni, conclude: «credo che mettere al mondo un figlio abbia un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai genitori».
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