Ci siamo abituati a racchiudere l’opera di Italo Calvino entro alcune formule, di vecchia e nuova data. Una di queste etichette, “il pathos della distanza”, risale alla fine degli anni Cinquanta, per la precisione a un saggio di Cesare Cases, che si giovava di una nota riflessione di Nietzsche sull’aristocratico in posizione di dominio, sicuro di una speciale elezione, di una nativa superiorità, e perciò distaccato dalla moltitudine che rimane in basso. L’atteggiamento di Calvino appariva a Cases la riedizione di un siffatto aristocraticismo, beninteso in una versione problematica, fra sentore del privilegio e incapacità di adattamento, fra coscienza superiore e disagio verso le concrete, volgari circostanze.
Secondo uno svolgimento critico ulteriore, la separatezza di Calvino ha finito per prendere una piega radicale: il passo indietro rispetto alla contingenza, lo stare in disparte dello scrittore, che contempla esclusivamente da remoto fatti grezzi e maleodoranti, si è estremizzato in una ritirata dalla stessa scrittura a propria firma. Calvino avrebbe fatto proprio un caposaldo strutturalista e successivamente decostruzionista, la “morte dell’autore”, riconoscendo l’autonomia assoluta della letteratura, galassia o rete o brusìo di testi dialoganti fra loro, in perfetta indipendenza non solo da ogni oggetto esterno, ma anche dai soggetti scriventi. La lingua, struttura impersonale, “parla” l’uomo; analogamente, il sistema letterario “parla” lo scrittore, con amputazione della libertà espressiva e della novità derivante dal vissuto, in definitiva con elisione dell’io stesso.
A tal punto Calvino si sarebbe identificato con questo paradigma da cooperare attivamente a promuoverlo, riuscendo così l’antipodo per eccellenza dell’altro grande scrittore post-moderno italiano, Pier Paolo Pasolini, determinato invece a compromettersi in prima persona, ad attivare un cortocircuito vita-opera. Pasolini contro Calvino, insomma; secondo il titolo d’impatto di un libro di Carla Benedetti apparso nel 1998 e seguito, un anno dopo, da un approfondimento non meno corrosivo, L’ombra lunga dell’autore. In esergo, qui, il rimpianto di Silas Flannery, un personaggio appunto di Calvino, personaggio-scrittore, s’intende, e con idee molto chiare sul proprio mestiere, anche se realizzabili fino a un certo punto: “Come scriverei bene se non ci fossi”.
È proprio il rilievo di queste indicazioni a sollecitare accertamenti. E una verifica offre adesso un volume di Marina Paino, Il Barone e il Viaggiatore e altri studi su Italo Calvino, apparso presso Marsilio qualche mese fa e impegnato in particolar modo sui due romanzi calviniani allusi dal titolo. Armata delle debite attrezzature ma felicemente libera da ogni ipoteca, Paino torna a sondare i testi, in primo luogo il Barone rampante. E qui si imbatte in tracce semi-sepolte di un autobiografismo dissimulato e tuttavia non interamente rimosso. Alla base della decisione di Cosimo Piovasco di Rondò che, in rottura clamorosa con la sua famiglia (e non solo), sale sugli alberi per non ridiscenderne più, c’è anche l’esperienza politica dello scrittore, quel disagio in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria che lo porterà poi a uscire dal Partito Comunista.
E non basta. Valorizzando le notizie di uno scritto di Calvino espressamente autobiografico, La strada di San Giovanni, e in specie il ritratto di un padre agronomo e di una madre appassionata di botanica, Paino fa un passo ulteriore: “Nella scelta di Cosimo di allontanarsi dalla vita ordinaria, la vita di tutti, per condurre una vita totalmente alternativa in una sorta di personalissimo aldilà, significativa è l’opzione per un’esistenza “arborea”, ovvero per una dimensione che nell’immaginario di Calvino era strettamente legata all’universo genitoriale”.
In gioco è dunque la ripresa di contatto con la figura paterna e quella materna; e il recupero del loro sapere, amoroso e puntiglioso “sapere della natura”. Una natura, potremmo soggiungere, come parametro affidabile, come criterio di giudizio, specie nel momento in cui la storia sembra deragliare. Per Calvino, beninteso, non si tratta di congedare la storia tout court, ma di distanziarsi da un certo suo indirizzo, magari dominante: è rispetto a un’egemonia che occorre praticare una separazione o, meglio, coniugare insieme immanenza e distanza, attenzione e scatto critico. A partire da una radice altra. In definitiva, le competenze dei genitori di Calvino conferiscono maggiore evidenza a un fenomeno di base: un padre e una madre manifestano, come tali, un sostrato imprescindibile, sono tramiti di un’origine che viene “prima”, che precede le particolari articolazioni storiche.
D’accordo, un etimo siffatto è, per Calvino, a sua volta mondano: in questo romanzo, la natura non ha alcuna premessa trascendente. Ma le evidenze ed esigenze naturali garantiscono comunque all’individuo un suo intrinseco potenziale rispetto ai flussi mutevoli della storia, un’irriducibilità ai sistemi sociali che si avvicendano.
Tutto ciò, beninteso, non toglie il complementare coefficiente storico della famiglia, condizionata dal suo inevitabile innesto nella società. Non è a tema anche questo, nel Barone rampante? L’indagine di Paino rivela un recupero sottotraccia senza evacuare una conflittualità: Cosimo deve respingere il quadro parentale perché Calvino lo possa ritrovare. Se la ribellione del ragazzo rinvia a una delusione politica che l’autore ha sofferto, è anche vero che la valenza letterale dello scontro conserva un suo peso. Postilla (nostra): la dissociazione del giovanissimo rampollo dal Barone padre e da tutta la cerchia domestica pare proprio sfiduciare il côté storico dell’istituto-famiglia: Cosimo reagisce ai pregiudizi di casta dei genitori, entrambi in asse con l’ancien régime. Il nucleo domestico è suscettibile di diffida nella misura in cui si compromette con lo spirito del tempo.
Come accostare a questo punto, senza salti mortali, Se una notte d’inverno un viaggiatore, come passare in maniera plausibile dall’avvincente al sofisticato, dall’avventura alla teoria letteraria? Di qua sta una biografia, e biografia compatta, compiuta, che accompagna l’eroe fino alla morte; di là si trova un romanzo intorno al romanzo, con dieci storie sul tavolo anatomico, per di più regolarmente monche, senza risolutiva peripezia e conclusione chiarificatrice.
Eppure, Cosimo era un affabulatore accattivante e instancabile, con varia e sempre attenta platea, cui egli proponeva un repertorio mobile di vicende, senza mai ripetersi, semmai riprendendo i suoi racconti per rimodularli, per spostarne l’asse. Non solo: era anzitutto un instancabile divoratore di libri. Come il protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore? Come Calvino stesso?
Ha buone ragioni, Paino, per seguire ancora il suo filo rosso. Se nel romanzo di cibernetica narrativa c’è costantemente in primo piano un Lettore, sollecitato dalla sua avidità di romanzi, ebbene, entro una simile impaginazione è dato ravvisare, in filigrana, il profilo dell’autore empirico. Anche in questo caso, “c’è per Calvino un chiaro retroterra autobiografico che coinvolge direttamente molti aspetti di un’esistenza come la sua interamente ruotante intorno alla letteratura”. E dunque, la sua esperienza di scrittore, l’attività svolta presso una casa editrice, il personale impegno teorico sul terreno della narratologia e, last but not least, “la sua primaria e mai dismessa identità di lettore indefesso, solo a malapena dissimulata attraverso l’ostentato distanziamento dal protagonista apostrofato in seconda persona”. Perfino un’analisi in vitro di meccanismi e congegni implica un vissuto che preme.
La vicenda attribuita al Lettore, del resto, non è tutta interna all’universo dei libri. Paino fa notare che quel personaggio, sintomaticamente in tandem con la Lettrice di cui si è innamorato, rimane sempre in bilico tra fruizione di racconti ed esperienza diretta, due vettori che si rincorrono, si intrecciano, si sovrappongono, attingendo input l’uno dall’altro. In effetti, è impossibile separare, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, desiderio della lettura e desiderio della donna. La macro-cornice che contiene i dieci romanzi, di volta in volta interrotti, sviluppa la vicenda sovraordinata del Lettore e della Lettrice, e le assegna la conclusione del matrimonio. Un fine lieto e consacratissimo che può anche scontentare; specie quei critici perennemente in armi contro ogni presunto cedimento al marketing e al consumo.
Meglio indossare lenti più scaltrite? C’è pronta l’interpretazione che accredita un mimetismo ironico: in forza dell’ennesimo e supremo gioco metaletterario, una certa dinamica convenzionale sarebbe riprodotta in vista di uno smascheramento e di una denuncia. Da parte sua, Paino non ha problemi a registrare un “effetto premio”, che riguarda entrambe le tensioni coinvolte: l’amplesso finale va insieme con la “lettura conquistata”, visto che, nel letto matrimoniale, prima di spegnere la luce, il Lettore finisce di leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore (e “letto”, allora, è anche un participio passato)
Su Calvino, e opportunamente Marina Paino lo rimarca, incide non poco il modello delle Mille e una notte, dove raccontare e udire storie è decisivo discrimine fra vita e morte. Nessun congedo dalla realtà: il bisogno di racconti è contrassegno e insieme stimolo di un’intensità del vivere, per l’apertura di orizzonti che produce.
Così Calvino ci riappare in una luce diversa. Non il rassegnato e raggelato asceta del Codice, disposto a interiorizzare il tramonto dell’io e della sua libertà, anche inventiva; e nemmeno un ulteriore stratega del Sospetto, con l’imperativo categorico di demistificazione a oltranza, della scrittura, della ricezione, dell’industria culturale. Piuttosto, il testimone schivo, ma tutt’altro che ambiguo, di una passione; nella quale rientrano insieme i libri e il mondo, le occupazioni quotidiane e i resoconti dell’inaudito.