“Qui c’è qualcosa che pronuncia l’incontenibile fedeltà/ di un viaggiatore e questi luoghi gli appartengono/ perché c’è tutto un mondo che li reclama, perché il vento,/ che non si ferma a discutere, contraddice l’idea/ della separazione…”.
C’è qualcosa che commuove in ogni opera di Piero Marelli, poeta ultraottantenne capace di avere ancora uno sguardo acceso sul presente, di stare sempre e ancora dentro l’istante, di essere sempre – parafrasando le parole di Pichetto su queste pagine – in quell’ascolto ottuso e cocciuto della vita che spalanca davanti a lui uno spazio in cui il Mistero diventa esperienza.
La Camera obscura (La Vita Felice, 2022) del titolo di questa sua ultima raccolta poetica, come rileva Maria Teresa Parolini nella sua introduzione, “non è solo la notte che ci circonda, forse è la penombra della coscienza… la mente notturna, il luogo in cui le immagini e i ricordi trascorrono, messi a fuoco e rovesciati, come speranza nel futuro: l’ortografia capovolta di tutta un’esistenza è il riscatto di ciò che scorre via e appare incompiuto, vinto e minacciato dal nulla”.
Il libro, come mi aveva confidato a suo tempo l’autore, costituisce la seconda tappa della sua personalissima Commedia: è il purgatorio in cui si è trovato dopo lo sprofondamento avvenuto nel precedente Apocalypsis cum figuris, ambizioso e apocalittico viaggio nell’inferno della storia recente che egli compie accompagnato da poeti e soprattutto artisti come Picasso, che hanno denunciato la follia dell’uomo contemporaneo e che però non hanno saputo individuare la ragione di questa deriva.
E la Camera obscura comincia proprio là dove il precedente viaggio si era interrotto: la mancanza di senso, il vuoto, l’assenza di una direzione è la parola definitiva sull’uomo? Marelli torna a lasciarsi interrogare da ciò che c’è dentro e fuori di noi, a fare i conti con il destino individuale e collettivo, affidando alla parola poetica un compito altissimo e anche, però, come lui stesso confessa, umanamente impossibile. Al termine del suo percorso, infatti, sentiamo risuonare questa domanda: “E così, potranno queste pagine mantenere/ la loro promessa, calmare il mormorio/ per qualcosa che sentiamo pronto per accadere/ e rispondere all’incanto di un prato// con l’erba non ancora tagliata, una recita leale,/ che la nostra immaginazione/ ci permette come attesa?”.
La poesia non può salvare la vita, ma può guardarla così intensamente da potere forse cogliere la luce di un Altro che ci brilla dentro: Marelli nel suo viaggio celebra la dignità dell’uomo che come Sisifo sempre risolleva il masso; ma, soprattutto – nella ricerca di una casa definitiva per la domanda di felicità di quest’uomo – incontra e celebra figure come quella di Simone Weil, “la ragazza impossibile” in cui vivono bellezza, verità, giustizia: “Con il solo nome dove ti sei riconosciuta: la dedizione, / semplicemente per dire ad ogni cosa creata/ la tua appartenenza…”.
È la stessa passione per la creatura, per l’uomo e la sua condizione che ha il poeta Marelli, che ancora insegue una parola che possa venire dopo il silenzio di una figura a cui non tributa solo riconoscenza, ma in cui riconosce una strada dritta ancora da percorrere. Una strada che diventa luogo amichevole, accogliente per tutti i viandanti, “dove le case hanno risposto/ con la lezione delle porte spalancate…”. Mettendo il dito sulla mappa di un’Europa incompiuta e smemorata, il poeta indica “la radice di ogni incarnazione…”. Ogni luogo diventa per lui il luogo in cui gli inchiostri non “se la sentono più/ di accettare le distanze ( perché questa gioia/ e questo rimorso non restino solo una finzione),// che non tolgono il rammarico di tante storie,/ che perdonano per non dimenticare, restando visibili/ nei campi a croci bianche con la ferita di un loro ordine”.
E dunque, queste poesie mantengono la loro promessa? A questa domanda risponde il Post-scriptum dell’ultima pagina in cui, come un Dante che lascia il suo purgatorio, che lascia la sua Camera obscura, Marelli si abbandona a ciò che gli viene incontro: “Questo è il momento per aprire le porte,// ringraziare le parole che ti sono state consegnate,/ rimettere gli occhiali per meglio riconoscere/ quelli che incontri”.
Viene proprio da dire grazie per la disarmante umiltà di questa poesia, di dire grazie commossi a questo grande poeta e maestro perché ancora una volta ci regala i suoi occhiali per riconoscere meglio quello che la realtà si tiene cucita dentro e che la parola poetica illumina piano.
Aspettiamo così il terzo tempo della sua Commedia: chissà quale foto, chissà quale luce vorrà raccontarci dopo l’abisso dell’Apocalypsis cum figuris e il passaggio nella Camera obscura, consapevolmente amaro e però pieno di quella speranza verso qualcosa che “ci costringerà ad ammettere la gioia elementare dei saluti/ lungo le strade dove inaspettatamente abbiamo incontrato/ la nostra salvezza, il volo dell’ombra e della luce… la perfezione di un sorriso/ che si è allontanato lasciando la scia/ di uno sguardo. Non minaccia… Dono…!”.
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