“La parola su Dio come Padre mi si è resa comprensibile dal di dentro; sulla base dell’esperienza umana mi si è schiuso l’accesso al grande e benevolo Padre che è nel cielo”, così, durante l’omelia per il suo ottantesimo compleanno, Benedetto XVI rileggeva il cammino della sua lunga e feconda vita alla scoperta del volto di Dio.
Soprattutto, il pontefice ricordava che ogni persona vede emergere all’interno della sua esperienza alcune parole fondamentali che deve arrivare a pronunciare perché la sua vita si compia e se ne chiarisca la direzione ultima.
Questo è l’itinerario che propone anche mons. Massimo Camisasca nel suo volume appena pubblicato La paternità (Marcianum Press, Venezia 2024), con una prefazione di Claudio Risé, psicoterapeuta e docente, impegnato da anni con queste tematiche.
L’esperienza dell’autore è sicuramente molto ampia: educatore, insegnante, prete, fondatore della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo, rettore di seminario, vescovo di Reggio Emilia, accompagnatore di molte famiglie e persone. La ricchezza di queste vicende personali si riflette nell’indice degli argomenti trattati nel libro: la paternità e la maternità, l’unificazione dell’io, l’autorità e l’obbedienza, l’educazione in famiglia e a scuola, la paternità spirituale e la formazione dei sacerdoti. Ma ancor più sorprendente è l’unità che viene riconosciuta, dopo il cammino di anni, non solo tra tutte queste tematiche, apparentemente così disparate, ma tra tutti i vissuti dell’autore.
Per questo il vescovo emerito ha deciso di raccogliere e rielaborare in un’antologia interventi, meditazioni, articoli pubblicati nell’arco di diversi anni, come per rendere manifesto il filo rosso dei suoi incontri e dei suoi incarichi, la parola più importante che deve pronunciare: padre.
La necessità di riscoprire la paternità, secondo l’autore, emerge anzitutto dalla diagnosi della condizione attuale dell’uomo, che risulta segnata da “una cultura post-moderna che vede un’esclusione assoluta tra libertà e legami positivi, tra dipendenza e affermazione di sé, tra autorità e realizzazione dell’io” (p. 12).
I limiti di tale visione si fanno evidenti nella crisi della famiglia e dell’educazione, le cui difficoltà rivelano il fatto che “non siamo più sicuri che vivere sia una cosa buona, non siamo più certi che l’esistenza abbia un senso e uno scopo”. Da qui proviene la diffusa incapacità a uscire dall’adolescenza, la difficoltà nell’impegnarsi nel mondo, affrontandone sfide e rischi.
Queste fatiche sono causate dall’assenza della paternità: senza padre “la vita si popola di nemici” (p. 24); senza padre la libertà finisce per identificarsi con la spontaneità e l’indipendenza, ma, come dice Ambrogio, “a quanti signori finiscono per obbedire coloro che rifiutano di servire l’unico Signore”; senza padre diventa oscura e difficile la memoria di Dio, come certezza di un destino buono; senza padre ogni appello alla responsabilità diventa generico, doveristico e inefficace perché la responsabilità può essere compresa e vissuta solo come risposta a un Tu che chiama.
Il primo contributo del testo, smascherando l’assurdità di ogni pretesa autonomia, è sicuramente quello di farci avvertire un senso di profonda gratitudine per chi ci è stato padre e un desiderio di incontrare qualcuno che ancora oggi possa esserlo per noi. Anche di fronte alla descrizione della desolazione che ci circonda, non prevale comunque lo sconforto, ma diventa spontaneo pregare: che io sia sempre di più figlio, che io possa sempre trovare chi mi è veramente padre, che io possa essere padre per quelli che mi incontrano.
Camisasca non si limita, tuttavia, a descrivere i limiti della nostra condizione, ma suggerisce diverse strade perché la paternità possa risplendere in tutta la sua potenza.
Anzitutto, perché il padre sia “colui che introduce il figlio nella realtà della vita, che lo accompagna nell’affronto dei rischi” (p. 12) è necessario che sia il primo ad accettare la libertà come dipendenza, come compito creativo, in altre parole deve lasciarsi continuamente generare da altri.
Anche nell’ambito educativo, sarà possibile vivere una vera dimensione di paternità solo ponendoci una domanda fondamentale: amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità? Amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo?
Il richiamo all’autorità diventa poi ragionevole solo se accompagnato dalla proposta di un’appartenenza: si segue un’autorità solo se si vuole costruire insieme la stessa casa, tema carissimo all’esperienza dell’autore.
Fondamento ultimo della paternità, infine, può essere solo la riscoperta di Dio, come sorgente che ci ridona i figli e ci salva dal logorio della fatica educativo; altrimenti, se Dio non esiste, il figlio è solo un nostro prodotto (p. 70). Per questo l’ultimo capitolo del testo affronta il tema della paternità sacerdotale, la cui cancellazione comporta un gravissimo danno per l’esperienza cristiana (p. 91). Spesso si è tentati anche nella Chiesa di poter fare a meno della paternità, sostituendola con tentativi di organizzazione perfetta e con una gestione delle cose tanto abile quanto artificiale.
Anche grazie a queste inviti (la riscoperta del valore di quello che trasmettiamo, il costruire luoghi concreti di condivisione, il richiamo alla preghiera e alla confessione come gesti di paternità) il libro costituisce una provocazione costruttiva non solo per genitori, educatori, sacerdoti, ma per chiunque voglia prendere sul serio la vocazione alla paternità inscritta nel cuore di ogni uomo.
Il segno che la stesura stessa di questo volume sia un esercizio di paternità da parte di Camisasca nei confronti dei suoi lettori si manifesta nel fatto che il libro obbliga a fare i conti con le esperienze di paternità, feconde o dolorose che siano, che abbiamo attraversato, senza cedere alla tentazione di fare a meno di un padre, anzi ricordando a tutti che “la più grande dipendenza è l’amore ed esso è il fondamento della libertà” (p. 12).
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