“Poi ricominceremo a vivere tra uomini”, scriveva Albert Camus ne Il primo uomo, il suo romanzo pubblicato postumo: immaginando che questa fosse l’unica risposta che il fattore della tenuta di campagna algerina dava al protagonista Jacques Cormery il quale, sapendo di esser nato lì, vi si era recato per sapere se quell’uomo avesse conosciuto i suoi genitori.
All’indomani del conferimento del Nobel per la letteratura (1957), lo scrittore franco–algerino aveva terminato la sua ultima opera, della quale quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla “scoperta”, coincidenti anche con i sessanta dalla morte dell’autore (che Giunti ha deciso di ricordare con la ripubblicazione del libro): il manoscritto venne ritrovato, il 4 gennaio 1960, alcuni chilometri a sud di Parigi tra le lamiere dell’automobile distrutta in seguito all’incidente in cui Camus morì assieme al suo editore Michel Gallimard che era alla guida dell’auto.
Si trattava di un romanzo autobiografico, nel quale Camus parlava della sua mancata conoscenza del padre: e si chiedeva se nella domanda sulla propria origine potesse nascondersi la possibilità di una memoria per rinascere spiritualmente prima di morire. Ma l’interrogativo era destinato a trovare la soluzione meno desiderata, vale a dire la non risposta dell’interlocutore, il quale riesce solo a rievocare la storia della colonizzazione francese in Algeria: noi, francesi e arabi, “siamo fatti per intenderci” e, anche “se continueremo ancora per un po’ ad ammazzarci”, prima o poi riscopriremo un’umanità che a Parigi, in tempo di pace, non capiscono.
Restava, dopo, soltanto la mancanza di radici dalla quale la ricerca era partita: non avendo “una tradizione che gli fosse stata trasmessa”, Cormery non aveva avuto nulla e aveva vissuto come se la propria “insaziabile voglia di vivere” non potesse trovare risposta se non nella “nuda necessità” di un “mondo sconosciuto” nel quale egli “non desiderava nessun posto”. L’esser costretti a vivere come se non esistesse un Dio, non conduceva tuttavia l’ex comunista Camus a giustificare la libertà assoluta, teorizzata in quegli stessi anni da Jean Paul Sartre, che era rimasto comunista (e stalinista) e, per un certo periodo, era stato anche suo amico: piuttosto, la mancanza del padre faceva nascere l’urgenza di ritrovarlo, per liberarsi dall’illusione di bastare a se stessi. C’erano allora, in Jacques Cormery, “quei gesti, quei giochi, quell’audacia, quella foga, la famiglia, la lampada a petrolio e la scala buia, le palme nel vento, la nascita e il battesimo nel mare”, ma “c’era anche la parte oscura dell’individuo”, nella quale una ferita si è ingrandita perché ha desiderato una risposta “come quelle acque profonde che sottoterra, dal fondo dei labirinti rocciosi, pur non avendo mai visto la luce del giorno, riflettono un bagliore smorzato, venuto chissà da dove”.
Ci può essere disperazione ad amare qualcuno che non crede in questa possibilità e che si immagina il proprio futuro come una ripetizione dei gesti del passato. Ma non per Cormery, il cui ultimo gesto sembrerebbe muoversi al ritmo di un cuore che batte nel presente contro il nichilismo. Egli voleva bene, si legge nell’ultima pagina del Primo uomo, a una donna “intelligente e superiore” che amava “tanto l’amore”, ma che, quando era tornata dal viaggio nel proprio paese d’origine, non riusciva più a vedere l’amore nel presente: “E allora, col sangue in fiamme, le veniva voglia di fuggire, fuggire in un paese dove nessuno invecchiava e moriva, e la bellezza era imperitura, e la vita sempre selvaggia e scintillante, un paese che non esisteva: al ritorno piangeva fra le sue braccia, e lui l’amava disperatamente”.