“Una sola immagine può valere quanto mille parole”, dicono. È un’utile esortazione a puntare sempre verso l’evidenza rappresentativa; tant’è vero che si è tentati di estendere questa esortazione all’idea che qualche volta (non sempre) una sola citazione possa valere quasi quanto un lungo saggio: come per esempio il classico L’homme révolté (L’uomo in rivolta) di Albert Camus (Premio Nobel 1957). Il saggio di Camus è una lunga analisi filosofica (più di 300 pagine), ricca di importanti considerazioni storiche, politiche, letterarie; e vale ben la pena di leggerla integralmente. Ma nella situazione che noi tutti viviamo (subiamo) oggi, i paragrafi iniziali di L’homme révolté sono quelli che ci parlano più direttamente:
“Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma, se è vero che egli oppone un rifiuto, non è vero però che esprima semplicemente una rinunzia: è al tempo stesso un uomo che, fin dal suo primo impulso, dice sì. Capita che uno schiavo, che per tutta la vita non ha fatto altro che ricevere ordini, si trovi di fronte a un comando che d’improvviso egli ritenga inaccettabile. E qual è il contenuto del suo ‘No’? Esso può significare per esempio: ‘Questa situazione è durata fin troppo’, o ‘Fin qui, sì; più oltre, no’, oppure: ‘Guardi che lei sta andando troppo in là’, o ancora: ‘C’è un limite che lei non può superare’. Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. E la stessa idea del limite si ritrova nella sensazione, propria del ribelle, che l’altro ‘stia esagerando’ – che cioè estenda troppo il suo diritto e oltrepassi una frontiera a partire dalla quale gli sorge di fronte un altro diritto che lo limita. Così il movimento della rivolta poggia sul categorico rifiuto di un’intrusione considerata intollerabile, e al tempo stesso sulla confusa certezza di un buon diritto; più esattamente sull’impressione, da parte del ribelle, di ‘aver diritto a’.
La rivolta è sempre accompagnata dalla sensazione che uno ha, in qualche modo e in qualche misura, ragione. È per questo che lo schiavo in rivolta dice al tempo stesso sì e no. Nel momento in cui afferma la frontiera, afferma tutto ciò che egli intuisce, e che vuol preservare, come situato al di qua della frontiera. Egli dimostra con pervicacia che vi è in lui qualcosa che ‘vale la pena di’, qualcosa che esige che vi si faccia attenzione. In certo modo, egli oppone all’ordine che lo opprime una sorta di diritto a non essere oppresso al di là di quello che egli possa ammettere”.
La fedele traduzione rivela al tempo stesso la forza generale e un piccolo neo di questo discorso di un grande scrittore. Si è mantenuto infatti, per scrupolo di letteralità, il termine “schiavo” del testo originale; ma questa scelta lessicale di Camus è un po’ enfatica, e riflette l’iperbolismo ancora nietzscheano che pervade vari punti del suo saggio (il quale risale al 1951). Il soggetto di cui si parla qui non è veramente lo “schiavo” (termine troppo forte che, per paradosso, rischia di trasportarci in una rassicurante distanza archeologica), ma il suddito: e qui si entra nel cuore della nostra contemporaneità. Il suddito che si ribella è una figura in via di formazione, una figura embrionale: e in fondo non importa quanto chiara sia la meta della sua ribellione. Importa piuttosto che con essa il ribelle o la ribelle cominci il processo di maturazione che lo porta alla figura compiuta del suo ruolo sociale: quello del cittadino e della cittadina.
Fra le varie iniziative più o meno ottimistiche con le quali si tenta di non farsi schiacciare dalla pandemia, forse la più durevole sarà quella di cui sembra si parli di meno: cioè una rinnovata meditazione sul problema e la sfida della cittadinanza.
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