Ci sono libri che non vorresti mai leggere. Quelli che ti sferrano un pugno proprio dritto nello stomaco. Che smuovono le viscere, frullando schegge di memoria e paure, inquietudini e amarezze. Peggio, scatenano una rabbia sorda, quasi disperata. Canale terminale di Eleonora Coletta (Cantagalli, 2023) sarebbe da annoverare nell’elenco dei volumi da evitare, se non fosse per la portata di responsabilità che scaraventa addosso a chi lo legge: il dovere di cittadinanza che è proprio di chiunque affronta le contraddizioni del nostro Paese e cerca di scioglierle in un vissuto condiviso, orientato al bene comune.
Conosco Eleonora da quando eravamo adolescenti. E conoscevo suo marito Dario, morto il 16 marzo 2021 all’Ospedale Moscati di Taranto. Una delle tante vittime della pandemia, secondo il racconto comodo, per questo non meno angosciante, di quei mesi drammatici che hanno visto l’Italia, e il mondo intero, ingabbiati nell’incertezza e nell’isolamento.
La narrazione che propone il volume è un’altra. Il Covid non sembra l’unico mostro che centinaia di migliaia di persone hanno dovuto affrontare. Alla protervia e implacabile avanzata del virus si è aggiunta in alcuni luoghi, in certe regioni, l’inefficienza di un sistema mai testato da una pandemia, nemmeno in grado di affrontare la “normalità” sanitaria, con inadempienze, ritardi, approssimazioni, mancanze e vuoti formativi e specialistici.
Il libro, che alterna la discesa all’inferno di famiglie, figli, sorelle, madri a cui il Covid ha tolto ciò che avevano di più caro, a dati e analisi puntuali, svela come l’emergenza sia diventata in alcuni contesti il “facile alibi” per degrado e malasanità, negligenze e trascuratezze. Tutti mali endemici in alcuni ospedali del Sud, dove il personale non è mai abbastanza, le strutture sono inadeguate, i macchinari obsoleti o talmente all’avanguardia da risultare misteriosi a tecnici non adeguatamente formati.
Sarà la magistratura a verificare quanto di vero e di marcio c’è stato nella gestione del contrasto al virus. Oltre le denunce depositate in questura sul caso Moscati di Taranto, resta il dolore di chi ha perso persone care, in modo drammatico e inumano, senza incontrare quell’accoglienza dovuta non solo al paziente, ma anche al suo insieme di relazioni. Ciò che non poteva tenere in conto il Covid, l’implacabile solitudine dei contagiati nei reparti di terapia intensiva, l’isolamento forzato da chi poteva dare la forza psicologica e spirituale per affrontare il terribile morbo, doveva essere mitigato e tradotto da una classe medica e sanitaria che triturata dall’avanzare dell’epidemia non è sempre stata all’altezza. Scorrendo il grido di dolore di Donato, Venere, Rosanna e molti altri congiunti delle vittime del Moscati, colpisce la ripetitività di comportamenti e parole con cui sono stati informati sulle condizioni dei loro cari. La totale mancanza di empatia, l’impossibilità di stabilire un qualsiasi contatto con il personale medico e sanitario. L’abbandono insomma non solo del paziente, ma anche della famiglia.
Quella di Coletta non è un’operazione per de-mitizzare gli eroi in tuta bianca, stremati dalla fatica. Ma per capire cosa non ha funzionato, perché pazienti oncologici sono stati contagiati in corsia, altri sono morti su una sedia, altri ancora, come Dario e suo suocero, hanno contratto infezioni da batteri killer nell’ospedale che doveva garantire un certo grado di sicurezza ai pazienti in condizioni di estrema fragilità. Un libro per chiedere giustizia, che ha il merito di certificare proprio quello che è mancato tra le corsie del Moscati di Taranto, la solidarietà.
Una nuova famiglia si è formata sul dolore, quella dei sopravvissuti che ora devono trovare ragioni per andare avanti. Madri, mogli, sorelle, fratelli e figli che mettono in pagina il vuoto della perdita e insieme il desiderio di sapere e capire. L’ultimo pietoso atto per chi non c’è più: la verità.
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