Grazie al cielo esistono tra i contemporanei alcuni poeti che hanno deciso di smettere di fare “letteratura”, e fanno veramente poesia. Sono in pochi, ma resistono, ed è bello pensare che saranno loro le voci di quelli che resteranno di questo primo secolo degli anni duemila. “Dall’addome disteso/ escono i fiori/ della vecchia istruzione. Gli ascolti di Chopin./ Lo percuoterei/ per sentire ancora/ risuonare nella cavità/ di quella casa/ un po’ di musica”. “Finché abita indumenti, resta” scrive Riccardo Canaletti nelle poesie commoventi dedicate al nonno e alla sua lenta scomparsa, nella prima sezione del suo Verso la foce (Interno Libri, 2024), e subito si avverte una voce che tenta di scavare dentro la materia del presente e di rubare il bene e il male ai corpi, per restituirli chiari, puliti, anche più dolorosi ma intensi ed effervescenti, attraverso la lingua sempre magmatica e suadente della poesia.
Parafrasando, potremmo dire anche “Finché risuona in testa, e si può cantare in versi, vive”; che d’altronde è questo lo sforzo e il miracolo che si fa con la lingua, e con la letteratura, giardino segreto dove tutto, sempre, continua ad esistere, e dove, di più, tutto può continuare a nascere. “A volte è il solo guardarti/ il significato che resta”. È strano accorgersi di come tutti coloro che scrivono, in fondo in fondo, che ne siano o meno consapevoli, compiano un atto ladronesco, e di sopraffazione, consegnando a un per sempre indefinito e a una platea di potenziali indefiniti lettori il corpo e l’anima di coloro che ritraggono, sottraendoli alle forme stanche e caduche dell’esistenza che inevitabilmente le corromperà, e tentando di iscriverli, senza chiedere permesso, in qualche stanza dell’eterno.
Capiamo che il poeta Canaletti è a tutti gli effetti un poeta della testimonianza, affettiva, corale, un poeta dei sensi, non cerebrale e non “letterario”. Il terzo viaggio di Canaletti in versi si presenta come una raccolta di affettuosi ritratti, ma anche di doloroso cordoglio, invero, in cui il poeta stesso avverte tutto il possibile motore nucleare della vita. I volti delle persone amate come enigmi e come terre dove avviene il miracolo del “significato”. “Allora è chiaro/ vivere è lasciare che la foglia/ diventi cenere ogni mattina/ sulla cresta del mare/ e tornare con un pugno di pesci/ da donare a lei, da tenere/ nel cuore fedele di un vascello”.
È nel cuore fedele di una nave, che accoglie il mondo e i suoi strani protagonisti, che il poeta attraversa e naviga per incontrare la vita e la morte, con curiosità sensibile, accesa. Canaletti non dice mai “io”, chiama a raccolta molti “tu”, di cui dettagli minimi o particolari minuscoli condensano, ai suoi occhi, tutto il senso del cercare, del vivere, del gioire. Qui ancora splendidamente ce ne offre un esempio: “Vedo la voglia/ sotto il tuo orecchio/ dove cade l’ombra / eterna della vita”. Tutto il libro di questo giovane e promettente autore è innervato di questo amoroso senso di appartenenza e gratitudine, a partire dalla splendida dedica, in cui con audacia e tenerezza osa dire alla donna che ama “a te: la mia vita è tua”.
E la lingua, pare di intuire, viene anch’essa vissuta come un prodigio di natura, e che però cambia, muta, e viene sempre dopo la potenza dell’essere: ne è la serva contenta, devota, obbediente. Ma è ciò che alla lingua si offre, come regalo per l’adorazione dello sguardo, che rimane unico, prezioso. Come il mare, altro sfondo sempre sull’orizzonte e davanti agli occhi del poeta. “La lingua degli antichi/ non la conosci/ ma le immagini/ le immagini sì”.
C’è qualcosa, e in questo emerge tutto il senso religioso e cristiano di Canaletti, che per questo autore precede la grammatica, il ragionamento, il domandarsi con criterio filosofico, e che precede la parola in quanto in sé stesso la giustifica, e la “inizia”. “Un bambino vide Gesù/ con il peso del corpo sulle mani. Gli appoggia una pigna sotto i piedi di vernice”. La disposizione d’animo di Canaletti assomiglia a quel vertiginoso “Cum tucte” presente nella lauda francescana. Se è dai piedi dolenti del Cristo che tutto “l’universo si squaderna” allora ecco che tutti i segni viventi, le creature, sono indizi, materia del suo amore, e di più della sua gloria umana e celeste. George Steiner ci ha suggerito che Dio è la parola prima, transustanziazione (termine che indica la presenza reale di Cristo nel sacramento eucaristico) che da sola consente, col comparire nel mondo dell’essere e delle idee, la nominazione di tutte le altre. Come dire, una soglia-anticamera del “dire”. Canaletti “sente” questa verità, quando parla dei suoi amori, delle sue “spiagge in fondo/ alle nostre notti”, sente che c’è qualcuno che “ha seminato/ le luci della riva”. E sembra sentire anche che senza quel tu, la magnifica ruota del mondo non può girare: “Certo, abbiamo una casa/ ma gli odori sono i tuoi. Io sono l’intorno/ che cresce/ il freddo che nasce dalla sera. Tu sei il fischietto/ comandi l’aria”.
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