Da un paio d’anni si parla anche in Italia di cancel culture o di “cultura della cancellazione”. Essa nasce come estensione di quella forma di boicottaggio (oramai diffuso anche tra noi) in cui qualcuno diviene oggetto di proteste indignate per ciò che ha detto o fatto e di conseguenza può essere estromesso da cerchie sociali e professionali.
La cancel culture si applica in particolare a tracce e opere del passato ritenuto non in linea con l’ideologia del politicamente corretto. A farne le spese non sono solo le statue dedicate a statisti o importanti individui del passato (da Cristoforo Colombo a Winston Churchill), ma anche opere letterarie, soprattutto quei classici che costituiscono l’ossatura del canone culturale tradizionale occidentale.
Il boicottaggio non è rimasto senza esiti, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove la scuola e l’accademia hanno a volte imposto il “purgamento” di racconti, romanzi e poemi accusati di contenere espressioni offensive verso certe minoranze etniche, verso le donne o verso alcuni gruppi sociali ritenuti discriminati. A ciò si sono aggiunti provvedimenti presi dalle pubbliche autorità che hanno disposto l’abbattimento di statue o il cambiamento della toponomastica.
Dal punto di vista culturale la cancel culture può vantare delle origini importanti, come i post-colonial studies e i subalternal studies, che fioriscono nei paesi anglosassoni nel secondo dopoguerra. I risultati di tali ricerche arrivano tuttavia alla cancel culture in forma semplificata e tendenzialmente ideologica, la quale si manifesta sotto la specie di una censura retroattiva del passato. In tale prospettiva la cancel culture ricorda in parte alcuni aspetti dei fenomeni totalitari novecenteschi. Si pensi alla cancellazione della memoria di personaggi caduti in disgrazia o alla pubblica abiura e alle forzate richieste di “perdono” tipiche della Cina comunista di qualche decennio fa.
La cancel culture si collega anche alle politiche della memoria presenti in ogni comunità politica sin dall’antichità. Per esemplificare, consideriamo la storia recente del nostro paese. Essere italiani in genere presuppone non solo ricordare alcune cose e non altre del nostro passato comune, ma significa anche ricordarsi di dover dimenticare alcuni traumi di questo passato. Almeno sino a quando non diventi necessario farci i conti. Solo da una ventina d’anni, ad esempio, abbiamo iniziato a ricordare che in Italia tra il 1943 e il 1945 si è combattuta una “guerra civile” tra fascisti e antifascisti.
Nell’operazione del ricordo giocano un ruolo fondamentale, seppur distinto, le memorie dei testimoni e il lavoro degli storici. Tuttavia occorre sottolineare che il lavoro del ricordo non è fine a se stesso, ma deve avere come esito un giudizio comune che metta un freno ai conflitti di memorie, i quali, lasciati a se stessi, possono generare faide senza fine. Il soggetto del giudizio non è il testimone, che tende ad avere una visione parziale, né lo storiografo in quanto tale, che ha il dovere innanzitutto di comprendere e spiegare. Il soggetto del giudizio è il cittadino informato e formato, il quale, a partire dalla comprensione del passato, effettua su questo un taglio, distinguendo torti e ragioni. Ma tale giudizio, proprio in quanto informato dalla comprensione degli eventi, non può non correre il rischio del perdono. Il perdono infatti non presuppone la dimenticanza, tutt’altro. Ciò che esso presuppone è la possibilità di non identificare totalmente il colpevole con i suoi atti. Ciò che esso richiede, in altre parole, è “una fede nello statuto creaturale dell’essere umano che mantiene la possibilità di un’altra storia” (Paul Ricoeur).
Ciò fu ben intuito dal vescovo anglicano Desmond Tutu, il principale ispiratore della Commissione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica dopo la fine dell’apartheid. La comunità politica in questa prospettiva deve farsi carico della possibilità di mettere in moto dei processi di riconciliazione tra chi ha subìto un grave torto e chi lo ha commesso. Si tratta della cosiddetta giustizia riparativa o rigenerativa, che oggi viene sperimentata e applicata anche in altri contesti nazionali.
In ogni caso occorre sottolineare che il perdono non può mai essere considerato come un dovere giuridico, semmai (forse) come un dovere morale. Il per-dono non è per sua natura normativo, ma segue, appunto, la dinamica gratuita del dono. È però necessario che si dia perdono, perché senza di esso non si dà la possibilità di una vita “felice”, capace di fiducia e di speranza, né a livello individuale né a livello sociale.
È questo ciò che intuì l’ebrea Etty Hillesum durante la persecuzione antisemita ad Amsterdam, quando scrisse: “Basta che esista una sola persona degna di questo nome per poter credere negli uomini”. È ciò che intuì Hannah Arendt quando ricordò che la comunità politica sta in piedi grazie alla possibilità di distinguere il colpevole dai suoi atti per poterlo reintegrare, donandogli un nuovo inizio.
Il limite della cancel culture è che, a motivo della sua impostazione ideologica e moralistica, non condivide quella fede nello statuto creaturale dell’essere umano di cui parla Ricoeur. Sicuramente il passato va riscritto, e gli storici non fanno altro che operare una continua revisione di esso. Certamente il passato va giudicato, stabilendo, in modo sempre rivedibile, torti e ragioni. La cancel culture però non intende correre il rischio del perdono.
Così facendo essa resta impigliata nei conflitti di memorie che generano una coazione a ripetere il trauma originario. Una memoria ossessionata da un passato che non vuol passare. Pur presentandosi come una rottura col passato, essa in realtà non lo supera. Non porta con sé una vera novità, ma una falsa interruzione.
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Promosso dall’associazione Prologos, per il ciclo Interruzioni, oggi si terrà, alle 17.30 su piattaforma Zoom, il seminario “Cancel culture: dinamiche storiche, questioni filosofiche”. Intervengono Eugenio Capozzi, professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, e Sante Maletta, docente di filosofia politica nell’Università di Bergamo. Per ricevere ID e passcode si può inviare una mail all’indirizzo: [email protected]
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