A che cosa servono i poeti? Tre libri di poesia che mi hanno fatto compagnia in quest’estate torrida sembrano scritti per rispondere a questa domanda: Dal Lazzaretto di Luigi Cannillo, Il bel tempo di Luisa Pianzola, Iànu e l’àngilu di Sebastiano Aglieco. Ciascuno a modo suo. E in realtà, ogni libro di poesia dovrebbe rispondere a questa domanda. Anzi, ogni poesia. Perché ogni testo poetico consapevole e riuscito dovrebbe contenere le ragioni del suo presentarsi al lettore.



Luigi Cannillo, nel testo di apertura del suo Dal Lazzaretto, recentemente edito da La vita felice, confessa: “Noi siamo i salvati adesso, i nostri/ occhi a fotografare le impronte:/ lo stemma borromeo, il bar/ degli eritrei – a futura memoria”. La zona del Lazzaretto di Milano, a Porta Venezia, è quella dove il poeta è nato e ha vissuto lungamente con la sua famiglia. È storicamente un quadrilatero di strade che risale al Quattrocento, su cui venne costruito il ricovero per i malati e che ha subìto profonde trasformazioni nel tempo. Tempo che è il vero protagonista del libro di Cannillo. O meglio: la nominazione delle cose che si sono sviluppate nel tempo; il loro respiro, il loro apparire e scomparire dentro un mistero più grande che qui, a Milano, prende il volto delle nebbie.



Il libro è un viaggio nella storia e nelle storie che dentro essa sono cresciute e anche si sono nascoste. In questo viaggio che ruolo assume il poeta? Lo abbiamo visto: è innanzitutto un testimone. Ma poi, ricordando i suoi giorni di alunno di una scuola che poi lo vedrà insegnante, il poeta dice ancora: “È l’ora della rincorsa per tutti/ tranne uno, che vive d’ombra, / un eremita che dal silenzio/ delle scale sente chiamare/ Non c’è più nessuno, maestro, scrivi”.

Testimone ed eremita, per il poeta l’apprendistato della vita e della poesia comincia in quelle aule in cui “Siamo soli con il nostro errore/ Poi lo sguardo si solleva dal libro/ ci spinge a uscire allo scoperto/ tra il bene e il male che nessuno dice”: la scuola non sa, non può o non vuole rispondere al desiderio di capire con cui ci affacciamo al mondo?



Con uno sguardo ancora rivolto ai luoghi storici dove sono stati sepolti “mali antichi e sogni di rivolta”, il poeta afferma: “Di vedetta possiamo distinguere/ all’orizzonte il profilo dei monti/ le tracce di animali in libertà/ Ma restiamo in servizio interrogando/ le rotaie dello scambio/ se la missione sia raggiungere/ gli altri in fuga o sull’attenti/ immaginare il loro ritorno”. Qual è il compito del poeta? Qual è il destino della poesia? Testimoniare il mondo che se n’è andato; rimanere come una sentinella a scrutare se mai ci sarà un suo ritorno, accettando anche la solitudine. Il viaggio continua, lo sguardo di Cannillo sa cogliere lo splendore dell’estate, nomina le cose e custodisce la loro voce. Ma “cresce una resa malinconica/ le braccia abbandonate alla luce/ un presagio di fatica nel respiro”. La sua parola poetica, precisa e controllata, sempre misurata, è come ferita da una consapevolezza amara: “La festa mi regalerà il mondo/ pensavo ma la cartolina/ che vi sto scrivendo mostra/ un interno modesto e poche visite/ la passeggiata nei dintorni”.

In che cosa consiste il tradimento di questa realtà così docilmente accolta e della quale la sentinella stava aspettando una diversa epifania? Il poeta torna al Lazzaretto, alla sua Milano in cui “Nemmeno una torre, una collina/ a indicare il verticale, perfino/ le rondini sfilano parallele/ senza tagliare il soffitto del cielo/ Dalla pianura si impara a fissare/ l’orizzonte senza soggezione/ ogni campo diligente nei suoi confini/ ogni cascina bassa, noi interni/ nel puro mistero delle nebbie… Dov’è il resto, chiedi alla prateria”. Le parole della poesia – che avrebbero dovuto incontrare la grazia del verticale, di una dimensione altra e forse salvifica del mondo, che potevano raccontare il miracolo di un desiderio insopprimibile finalmente soddisfatto – si sfarinano e si trasformano in una lenta e faticosa conquista della gioia “soltanto/ con duro esercizio, una roccia/ dopo l’altra, per ostinazione”, mentre “Del dolore invece/ si riconosce subito/ la chiara origine e naturale/ la sua statura, l’avanzare del taglio”.

Qual è, dunque, il compito del poeta di fronte all’apparente sconfitta del tempo? Risponde così Cannillo: “Ho ascoltato e trascritto/ ogni volta imperfetto affamato/ Mentre altri facilmente sazi/ scelgono dalla lista/ la poesia come cibo pronto”. Il poeta Cannillo prosegue il severo artigianato dell’opera, non c’è in lui la tentazione di disertare, ma caparbiamente ripete ancora e sempre: vivrò/ tutte le sette vite qui” perché “Nel formulare un interrogativo/ apriamo una via alle risposte”. Non abdica un poeta, rimane acceso nella sua domanda; la sua voce non si arrende: il silenzio è la parola della disperazione. Anche gli altri due libri letti in questi giorni, ingaggiando la loro battaglia sul tempo e sul suo senso, si muovono alla ricerca del compito e della vocazione della stessa poesia.

Ne Il bel tempo, la nuova raccolta poetica di Luisa Pianzola edita da Transeuropa, si assiste all’affermarsi di una scrittura capace di stare dentro la realtà del mondo; ma qui, più che in Cannillo, sembra prevalere la consapevolezza amara di una storia orfana di un qualsiasi destino buono. L’angolazione dello sguardo della poetessa arriva, per sua stessa ammissione, a una sorta di gelido sarcasmo nei confronti di ciò che nel mondo sembra continuamente sfaldarsi. Anche nei rapporti, negli amori “Alla fine non risulta costruito quasi niente”.

La conclusione qui è allora la resa ad un tempo del cui senso e del cui segreto non si è capaci di impossessarsi. “Sotto, la verità./ Più sotto, la verità” dice la poetessa: ma più che una certezza capace di trasformarsi in un’energia nuova, questa appare come una consapevolezza che non sa smuovere il mondo, chiuso dentro la sua nuvola di insignificanza, dentro il suo rotolare verso lo spegnimento finale.

C’è ancora una luce che la poesia e la vita possano gettare sopra gli istanti crudeli del tempo? Crudeli sono anche il mondo e il tempo raccontati da Sebastiano Aglieco nel suo Iànu e l’àngilu, un lungo, appassionato racconto in versi nella lingua siciliana di Sortino. Ma non c’è più tempo qui. E spazio. Bisognerà scriverli in un altro articolo il buio e la luce che abitano questa poesia.

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