Bellissimo, avvincente, ma anche pieno di colpi di scena, per il confronto serrato, per la condivisione di moltissime valutazioni e per la netta divergenza su altre. Si tratta di Credere (Piemme, 2022), dialogo serrato tra Julián Carrón e Umberto Galimberti a partire da alcune sintetiche domande: quale può essere una definizione di “credere” per un credente e per un non credente? Il cristianesimo ha ancora delle risposte alle domande degli uomini di oggi? L’uomo è libero di determinare il suo destino oppure no?
Tante sono le valutazioni condivise da Carrón e Galimberti, che compaiono già dalle prime pagine, come ad esempio – tra le tante citazioni ed estrapolazioni possibili dello stesso filosofo e psicanalista – “La mia convinzione è che Occidente e cristianesimo coincidano perfettamente, nel senso che il cristianesimo ha ideato una forma del tempo completamente diversa da quella dei Greci. Per i Greci il tempo era ciclico. La tradizione giudaico-cristiana cambia la forma del tempo, inserisce il tempo in un disegno di salvezza, e quando il tempo è inserito in un disegno diventa storia. Non c’è storia prima di allora, i Greci non erano storici. Tutto è cristiano in Occidente”.
Ma a spiegare la natura della rivoluzione cristiana, Carrón evidenzia che “Solo un avvenimento imprevisto, l’entrata di Dio nella storia con la chiamata di Abramo, poteva interrompere il continuo ripetersi dei cicli naturali e portare quella sorprendente novità che segna una discontinuità rispetto al resto. Ma c’è un evento capitale. Dio prende un’iniziativa ancora più audace, incarnandosi, ‘dando carne e sangue ai concetti’ nella figura di Gesù di Nazaret”.
Le obiezioni di Galimberti fanno ricorso anche all’affermazione di Nietzsche “Dio è morto” e “automaticamente, tutta la promessa collassa ed emerge il nichilismo: ‘Manca lo scopo, manca la risposta al perché? Tutti i valori si svalutano’. Se manca lo scopo, il futuro non è più una promessa. È proprio questo che sentono i nostri giovani”, che assumono “droghe come anestetico all’angoscia che provano guardando il futuro. Se il futuro non è più una promessa, ecco che scompare l’ottimismo che la religione cristiana ha portato nella civiltà occidentale. Non è un caso che l’Occidente sia diventato – è inutile far finta di essere umili – la prima civiltà del mondo: è stato grazie all’idea cristiana che nel futuro c’è rimedio ai mali del passato. Ma non è più così”.
Eppure, anche di fronte alle obiezioni, Carrón fa ricorso alla lettura ragionevole dell’esperienza umana, sostenendo che “la domanda di senso può emergere perfino nella forma di una ‘disperazione’. Perciò dico che l’io, l’uomo, è irriducibile alla gabbia della tecnica. È proprio l’io che ha resistito all’assalto di tanti sistemi di potere che nel Novecento hanno provato a distruggerlo – il nazismo, il comunismo –, come tenta di fare adesso lo strapotere della tecnica. La persona è più della somma dei fattori biologici, psicologici, sociologici con cui viene solitamente definita; l’io è un’altra cosa, alla radice di quei fattori, è più di tutto questo. Io credo nell’uomo perché credo in Dio. Questa mia convinzione, che cioè la libertà è un bene a portata di mano di chiunque, è certamente frutto del percorso di verifica umana della mia fede cristiana, altrimenti sarei anch’io in balia di tutto e di tutti”.
Sorprendentemente, Galimberti risponde: “Lei, don Carrón, crede che io mi fidi della ragione? La ragione per me è solamente un sistema di regole inventato allo scopo di consentire la previsione dei comportamenti altrui e intenderci quando si parla. Quindi, per noi la ragione è un’isola piccolissima nell’oceano dell’irrazionale e la fede purtroppo fa parte dell’oceano dell’irrazionale. La differenza tra me e il professor Carrón è che lui si muove sempre all’interno di una visione umanistica, io invece mi muovo in una dimensione che vede l’uomo sempre meno nella possibilità di esprimere se stesso. Lui crede nella libertà, io non credo nella libertà”.
Nel dialogo fitto, il sacerdote spagnolo torna ancora all’esperienza umana, sottolineando: “Io credo perché ho riconosciuto amorosamente Dio nella mia esperienza e da quel momento la mia vita è fiorita. Questo cammino mi ha fatto cogliere l’importanza della mia umanità per il mio percorso di fede. Da una parte, la scoperta di Cristo mi faceva abbracciare, amare la mia umanità, fino a scoprirmi capace di guardare il mio desiderio sterminato senza paura. D’altra parte, mi era sempre più evidente che senza questa mia umanità così desiderosa non avrei potuto rendermi veramente conto di chi era Cristo, della sua eccezionalità unica. Questo mi liberava sempre di più da ogni desiderio di possesso, tanto ero pieno di lui. Il giorno della mia ordinazione sacerdotale ho detto a tutti: Mi è stata data questa grazia: annunciare la ricchezza insondabile che è Cristo”.
La conclusione di Galimberti non è così ricca di speranza, ma sempre molto attenta all’umano: “Io sono ‘greco’. Essere ‘greci’ significa sapere che devi morire e quindi significa acquisire il senso del limite. Noi oggi invece abbiamo perso la nozione di limite. Il nostro potere di fare è molto superiore alla nostra capacità di prevedere gli effetti delle nostre ideazioni, di cui non ci preoccupiamo. Noi abbiamo scatenato Prometeo, il dio della tecnica, che i Greci avevano incatenato”.
Credere rappresenta un’occasione imperdibile per conoscere la ricchissima gamma dei punti di vista comuni, ma anche delle differenze tra un uomo di ragione e fede cristiana profonde, fattive, costruttive, popolari, e un uomo che non si ritiene né laico, né ateo, ma “greco”, uno che ha aiutato gli altri a ritrovare se stessi.
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