La poesia di Adam Zagajevski sull’attentato dell’11 settembre ha riscosso notevole successo presso i miei alunni di terza media e in molti, anche quando in verità non ce n’era alcun motivo, l’hanno inserita nel loro elaborato finale. Forse si è trattato di semplice tornaconto, di una captatio benevolentiae; forse invece, chissà, anche loro ci hanno visto dentro una scintilla, quel fuoco, quella visione, quella fiamma di cui Zagajevski parla ne L’ordinario e il sublime, il volume che contiene due suoi saggi sulla cultura contemporanea.
Come dice il poeta recentemente scomparso, la poesia, in quel suo stare nel mezzo tra cielo e terra, è uno degli strumenti più potenti per elevarci verso l’alto, verso il sublime. Non a discapito della realtà, della quotidianità, che però “è bella anche perché vi avvertiamo il brivido silenzioso di possibili eventi eroici, straordinari, misteriosi… Il quotidiano privato della possibilità dell’eroico e del sacro – quel brivido di una tragedia ancora lontana – è piatta e noiosa”.
Quando comincio a leggere un libro di poesia contemporanea io resto lì con dentro tutta una grande attesa. Spesso però rimanendo piuttosto deluso, proprio perché l’esperienza del mistero del mondo, dello stupore, dell’illuminazione viene tradita da una scrittura che, seppur sempre più curata, è spesso piatta e monotona, oppure solo capace di ironia e distacco.
Ma non è sempre così. Ultimamente mi è capitato di leggere due libri recenti di poesia e di sottolineare versi, passaggi, a volte interi testi, come non succedeva da tempo. È successo per le Domestiche abitudini di Giorgio Casali, un giovane poeta emiliano, pubblicato dalla casa editrice Contatti di Genova. E il motivo non è solo che in queste pagine si sente una voce che ha dimestichezza con la parola poetica (in tanti oggi scrivono mediamente bene, mostrando di non essere ingenui improvvisatori) o con maestri il cui tono risuona poi dentro le pagine (e questo è comunque un po’ più raro); ma piuttosto è che qui, dentro le abitudini domestiche compare quel vizio familiare dell’obbedire alla vita, del celebrare – tanto l’addio, quanto l’incontro – così come essi sono, cioè accadere non nostro, come conferma lo stesso poeta, citando Charles Wright prima delle sue stanze per il figlio: “come la santità, anche la felicità viene a dispetto di noi”.
Quella di Casali è una poesia che torna a essere meraviglia e stupore, e dolore per ciò che non sta nelle nostre mani e di cui tuttavia cerchiamo di prenderci cura, come recita il suo testo Terriccio: “I miei occhi li voglio premurosi/ sul seme che tengo riparato./ Con la torba faccio una culla/ continuamente desiderata. Ogni gravidanza/ non sarà scordata”. E ad ogni cosa che rimane il poeta si sforza “di cercare spiegazione, una scusa di gioia, un nome”.
Dopo questa cura, nel silenzio necessario, la parola poetica si mette a fare il suo mestiere, a dare indietro, a offrire di nuovo ciò che ha custodito. Questa poesia non si sottrae alle questioni fondamentali che l’esistenza pone a ciascuno di noi, facendosi interrogare sul senso del tempo e dell’amore, con dentro una sua musica talvolta cupa e mesta, con dentro quell’aria provinciale che insegna l’umiltà di attendere sempre una salvezza; con dentro, come per il basilico protagonista di un’altra poesia, il canto regale di ciò che sta aggrappato “alla sua stupenda promessa di tornare”. A volte scolpendo con un dettato asciutto e preciso le forme di questa esistenza; altre volte abbandonandosi a un modo più disteso, ma facendo sempre i conti con una misura, una forza che mostra la sua vittoria proprio là dove sembra accettare la sua sconfitta.
E anche Una stagione memorabile di Riccardo Ielmini, pubblicato da Il ponte del sale nel 2021, è uno di quei libri che, finita la lettura, sono un’altra cosa da quando sono usciti dalla legatoria: piegature, sottolineature, scritte a matita, qualche parentesi, frecce a indicare chissà quali ferite che quelle parole hanno lasciato in me che ho letto. Ho ripensato proprio alle parole di Zagajevski che descrive lo scrittore contemporaneo come uno “che ha i piedi bloccati nel piccolo, comico e comodo mondo della società consumistica, ma è in grado poi di raggiungere le sfere più alte dell’esistenza”. Leggere Ielmini e la sua Opera umana, è trovare una conferma a queste parole: “Mi commuove l’umana opera in rassegna:/ i tagli di scolo dell’acqua nel bosco,/ la fresatura di ringhiere arrugginite,/ l’accatastamento annuale della legna,/ il getto di idropulitrice nei tubi, fra le grate./ Come se ce ne infischiassimo di Qoelet,/ della favola dei gigli del campo/ tessuti da un altrove lontanissimo,/ o non ci accorgessimo quanto ci costa/ reinventare la lotta, riscrivere la resistenza./ Come se tutto l’affaccendarsi fosse/ davvero preparazione, davvero prefigurazione/ di questo altrove lontanissimo/ che mi visita nei tiepidi silenzi/ dei pomeriggi indecifrabili a febbraio”.
Rubo ancora un po’ di spazio, per dire di un’altra poesia, del Compleanno in cui il poeta racconta di come stia presidiando la sua posizione, dentro la sua trincea, “sull’avamposto del tempo che scivola/ via, e da qui vedrò il cielo inconcepibile/ respirarmi, benedirmi, strapparmi/ al mio inizio, al mio passaggio, alla mia fine:/ ma io avrò eretto la cattedrale di un destino”. Ecco, qualche volta nella poesia accade quello che ci aspettiamo dalla poesia.
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