D’accordo: nel caso di George Floyd, giustizia è stata fatta; d’accordo: “giustizia” (in questo come in tutti i casi simili) è un concetto relativo; d’accordo: molti ulteriori passi avanti sono necessari. Tutto questo è già stato ampiamente notato. Ma che cosa succede se proviamo a fare un piccolo passo di lato, tentando quello che si chiama un “esperimento intellettuale” (o meglio, un esperimento etico)?
È prevedibile e giusto che la fine tragica di George Floyd ispiri opere narrative, cinematografiche, teatrali, le quali sono laboratori etici prima ancora che artistici; nel senso che ogni membro del pubblico diviene spettatore dei propri moti interiori come fossero (in senso tutt’altro che frivolo) uno spettacolo: li esteriorizza, mentre al tempo stesso interiorizza i movimenti della società intorno a lui/lei. Con il risultato che questa diciamo così ispezione in una qualche misura lo cambia, e cambia anche la sua visione del mondo.
Ma che cosa bisogna che abbia luogo, perché questa doppia mutazione accada veramente? Nell’antica Grecia il teatro fu inventato (e così la natura del pensiero occidentale fu trasformata) quando, a uno che monologava in poesia su un palco, fu aggiunta un’altra persona che sullo stesso palco gli replicava dissentendo. Prima lezione allora, di cui tutti si ricordano: perché un testo teatrale (o cinematografico, o simili) esista, ci vuole un conflitto. Seconda lezione, di cui molti si dimenticano (soprattutto a Hollywood): perché il conflitto sia interessante, non dev’essere a senso unico.
Esempio concreto: l’avvocato difensore del poliziotto accusato nel caso Floyd si è trovato a difendere l’indifendibile. In questi casi, nei regimi totalitari o semi-totalitari ci si affretta a suggerire non troppo sottilmente che anche l’avvocato che difende il crimine meriterebbe di trovarsi sul banco degli imputati. Questo, a Minneapolis non è accaduto. Ma purtroppo non sono mancate tracce di questa tendenza para-totalitaria; quando per esempio, commentando quel processo, uno dei giornali statunitensi più autorevoli (che qui non nomino se non per dire che non si tratta, una volta tanto, del New York Times) ha buttato lì l’apprezzamento che quell’avvocato avrebbe fatto affermazioni dalle implicazioni razziste.
Che è una falsità, come ha potuto verificare chiunque abbia seguito in diretta l’abile arringa: quell’avvocato ha svolto il suo lavoro con eloquenza, precisione, delicatezza. Pur sapendo che sostanzialmente tutti gli erano contro, e che comunque non ce l’avrebbe mai fatta perché il caso sostenuto dalla pubblica accusa era troppo chiaro e forte, quel legale – volendo svolgere al meglio il suo dovere, senza adagiarsi in una difesa d’ufficio – si è mosso continuamente (e in modo perfettamente lecito) sul sottile crinale dei dettagli, dei chiaroscuri, delle ambiguità, delle differenze di percezione. Con tutta la fatica e tutto il rischio (ma ripetiamolo: stava facendo il suo dovere) di immergersi e immergerci in quei dettagli mentre restava vivo nella nostra mente il terribile quadro generale.
Allora, ecco: siccome “non è proibito pensare” (come dice la Carmen di Bizet) si può ipotizzare che, per esempio, un film non banale su questo caso clamoroso dovrebbe dedicare, se non intendesse restare alla superficie dell’arte e della vita, qualche spazio al dilemma etico e professionale di quel difensore. Ma di che cosa parlerebbe, in fondo, l’eventuale “spettacolo” dedicato a questi eventi? Si interrogherebbe sulla perdita di vite umane – quella che l’inglese chiama senza altre specificazioni loss of life: e l’apparente genericità di quest’ultima espressione rafforza invece il senso di una lacuna integrale, una perdita di mondo, al di là delle singole vite.
In ogni atto di violenza omicida si annida un tremendo groviglio fra una sopravvalutazione di vita (quella di chi uccide) e una sottovalutazione di vita (quella di chi viene ucciso); ma emerge anche una furiosa contraddizione: sottovalutando la vita dell’altro, l’uccisore finisce anche con il buttare la sua propria vita in un pozzo da cui sarà molto difficile farla uscire. I grandi tragici, dai già citati Greci a Jean Racine e oltre, questo l’hanno sempre saputo. Ma non c’è bisogno di essere né antichi né grandi né autori di tragedie – basta essere uno sceneggiatore coscienzioso – per fare un buon lavoro in questo senso. Perché la posta in gioco, qui, va ben al di là di un singolo spettacolo.
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