Fa una certa impressione leggere Sarah. La ragazza di Avetrana, di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020), non soltanto per il crimine, terribile, che tutti abbiamo imparato a conoscere dalle decine di ore di Tg, programmi di approfondimento, articoli di giornale; quello che colpisce il lettore è anche la ricostruzione dettagliata, con occhio antropologico, del tessuto sociale del paese: una comunità molto segnata dal fenomeno dell’emigrazione. Infatti, da queste pagine scopriamo una sorta di fil rouge nelle vite di Sarah Scazzi, della madre e di Sabrina Misseri, la cugina riconosciuta colpevole insieme alla madre Cosima Serrano, e ora in carcere. Sarah infatti ha vissuto lontana dal padre e dal fratello, emigrati al Nord per lavoro; ma anche sua madre Concetta è stata affidata da bambina ai parenti, e Sabrina pure ha passato un periodo della sua infanzia lontana dai genitori, emigrati in Germania per cercare di costruire un futuro migliore per la loro famiglia.
L’altro elemento che colpisce, in questa ricostruzione accuratissima dei due autori, che già a quattro mani avevano firmato Nella setta (Fandango, 2018), è la mediaticità del caso, finito subito in prima pagina sui giornali, e oggetto di speciali e dirette, a partire da quel giorno di fine agosto 2010, quando nel primo pomeriggio Sarah, uscita per raggiungere la casa degli zii, distante poche centinaia di metri, per andare al mare con la cugina e un’amica, sparì nel nulla; e nessuno può dimenticare come il ritrovamento del cadavere venne comunicato alla famiglia stessa nel corso di una diretta televisiva: un momento emblematico della televisione italiana, che ricorderemo, nelle storie di questo mezzo di comunicazione, fra qualche anno, forse alla pari con il caso di Alfredino Rampi a Vermicino.
La ricostruzione di Piccinni e Gazzanni, accuratissima, ci porta dentro il labirinto entro il quale gli inquirenti hanno cercato di districarsi, attraverso le varie versioni dei sospettati e dei testimoni; ma, soprattutto, ci dà il polso di tutto il corollario di processi originati dal “caso Scazzi”, esito di indagini satellite che hanno riguardato altri personaggi protagonisti della vicenda; protagonisti che da testimoni sono diventati indagati, imputati e, in qualche caso, anche condannati.
Per l’omicidio, come è noto, sono state condannate in via definitiva Sabrina Misseri, la cugina di Sara, e sua madre, Cosima Serrano, zia della vittima: quest’ultima, per l’opinione pubblica, è da sempre stata associata alla figura della madre-padrona, della moglie capace di comandare marito e figli a bacchetta. Ma, probabilmente, nella memoria di tutti, il personaggio rimasto maggiormente rimasto impresso è Michele Misseri, lo zio di Sara, padre di Sabrina, che, dopo aver confessato il 6 ottobre 2010 il delitto, ha cambiato sei volte versione, arrivando a coinvolgere la figlia minore. Successivamente, ammise di avere coinvolto la ragazza perché mal consigliato, ma non fu più creduto; condannato per occultamento di cadavere, continua a professarsi colpevole dell’omicidio.
Il processo a Cosima e Sabrina si è snodato per 52 udienze, svoltesi per quindici mesi, per un totale di 400 ore di dibattimento e 120 testimoni; quando, nell’agosto del 2016, il giudice relatore, Susanna De Felice, pubblicò le motivazioni della sentenza, ci si trovò davanti a 1.260 pagine, che si aggiungono alle 1.631 di primo grado per sostenere l’impalcatura delle condanne. A chiudere il cerchio del processo è poi la Corte di Cassazione, con la sentenza che conferma le condanne emessa il 21 febbraio 2017: a distanza di 2.371 giorni dalla morte della vittima, tutte le condanne vengono confermate, come confermate sono le ricostruzioni delle dinamiche dell’omicidio, i depistaggi, i ruoli dei personaggi chiamati in causa, le testimonianze. La Cassazione, nella condanna del 2017, sottolineò, fra le altre cose, la “fredda pianificazione d’una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità”. La Cassazione ha ribadito anche, come già aveva affermato la Corte di Taranto, che ci si sarebbe trovati, da parte della giovane accusata, di fronte a una consapevole strategia di strumentalizzazione dei media, volta a deviare le investigazioni verso piste di indagine fasulle. Tre parole, in sostanza, chiudono per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano un percorso tortuoso durato oltre cinque anni: fine pena mai. Almeno, fino ad ora.
C’è da dire che difficilmente in Italia si arriva, sottolineano Piccinni e Gazzanni, a una tripla conforme: ovvero, in tutti e tre i gradi di giudizio, i magistrati chiamati a pronunciarsi sulla morte della giovanissima vittima pare non abbiano avuto dubbi nel riconoscere la colpevolezza delle imputate. A vagliare questa versione nel corso degli anni sono stati 21 magistrati: otto in primo grado, otto in Appello e cinque in Cassazione. Ventuno esperti del diritto che hanno esaminato e valutato il caso nelle sue diverse sfumature.
Certo, oltre all’amarezza profonda per una vittima che oggi, a venticinque anni, sarebbe una giovane adulta, restano però anche l’amarezza e le perplessità per quello che è stato davvero il primo processo mediatico della storia italiana, una sorta, dicono gli autori, “di reality show ibrido fra il trash e la cronaca nera” in cui, ricordano Franco Coppi e Nicola Marseglia, “i mezzi di comunicazione si sono impadroniti della vicenda, e si sono scatenati senza alcun ritegno e senza alcuna preoccupazione di poter influire negativamente sull’accertamento della verità, procedendo ad autonome indagini, all’esame di coloro che sarebbero divenuti imputati fino a quando sono rimasti a piede libero, all’esame di testimoni, a sopralluoghi, a sondaggi di opinione, a dibattiti con la partecipazione di esperti, o sedicenti tali” (ibid.).
Insomma, è come se accanto ai processi in tribunale se ne fosse svolto un altro, continuo e senza interruzione, sui giornali e i canali Tv: un’involuzione o un segno dei tempi ipermediatici in cui viviamo?