Il titolo lascia campeggiare uno scenario ben noto, Il Castagno dei cento cavalli (Einaudi, 2024). L’ultimo romanzo di Cristina Cassar Scalia, anche stavolta con protagonista il vicequestore Vanina Guarrasi, della Mobile di Catania, fa dunque appello, almeno in apparenza, a una natura amena, nobilitata da una tradizione storica illustre: la regina Giovanna di Spagna, in visita in Sicilia, felicemente al riparo, con tutto il suo numeroso seguito, delle fronde ampie di quell’albero provvidenziale. La scrittrice, però, intende giocare di contrasto: il luogo ameno riappare come l’inopinata quinta di un delitto.



Vistose le connotazioni macabre, se il cadavere, per giunta femminile, è pesantemente oltraggiato da sfregi e mutilazioni. Mai forse nei romanzi con Vanina (questo, per la precisione, è l’ottavo), si era toccata una rappresentazione così ripugnante: prova raccapriccio la stessa protagonista, nonostante la sua familiarità con gli scenari del crimine. Affioreranno pure gli strumenti delle sevizie, un coltello e una sorta di scimitarra. Al lettore non viene risparmiato nulla; non deve indovinare, tradurre segnali, svolgere allusioni, bensì guardare quanto gli viene mostrato con esatto nitore. Non sta affrontando un saggio sui delitti particolarmente violenti, bensì la concretezza di un romanzo che non arretra di fronte ai particolari più scabrosi.



La vicenda centrale verte anzitutto sull’identificazione della vittima, non immediatamente riconoscibile. Si tratta di uno svolgimento tutt’altro che metafisico o comunque psicologico: siamo entro un giallo che si mantiene fedele alle sue premesse di genere. L’identità in questione è anagrafica e biografica. Se non emerge immediatamente, nemmeno attraverso i documenti, è perché la titolare, quand’era in vita, non aveva nessun interesse a palesarla e si faceva schermo di un soprannome e di un nome artefatto, lasciandosi chiamare la Boscaiola e presentandosi, nei rari rapporti coi conoscenti, come Anna Collesano. In realtà, si trattava di Palma Cusimano, secondo un gioco a nascondersi mirante a occultare un passato tutt’altro che raccomandabile.



In una prima stagione della sua duplice esistenza, Palma si è dedicata a ben altro, lavorando come ostetrica presso una clinica ginecologica di Castelbuono. Toccherà al lettore appurare personalmente quali attività si svolgessero, copertamente ma non troppo, presso un simile istituto, ufficialmente denominato “La casa del castagno in fiore”. Qui ci basta evidenziare la vena polemica dell’autrice, il suo j’accuse a carico di una mentalità diffusa che, da una parte, condannava certi comportamenti disinibiti, dall’altra chiudeva volentieri gli occhi di fronte a losche malversazioni, incuranti delle ragazze e rivolte soltanto a un florido mercato di adozioni clandestine. Tra i romanzi della Cassar Scalia, questo è uno dei più accesi socialmente, lasciando emergere la vocazione a una critica di costume acuminata e non generica.

Il rancore di molti verso la Cusimano l’hanno spinta a fuggire da Castelbuono e cercare rifugio presso le colline orientali dell’Etna, ma il tentativo di nascondersi si rivela, alla lunga, fallimentare. Il camuffamento a un certo punto si smaglia e chi doveva compiere la sua vendetta non si tira indietro. Nella narrazione, l’ordine sarà l’inverso: prima la ritorsione violenta, testimoniata dallo sconcio cadavere; quindi la lenta risalita alle radici, grazie all’indagine a ritroso della Guarrasi. Un diagramma motivato: “per individuare il movente di un omicidio è nella vita della vittima che bisogna scavare”.

L’assassinio in mostra sotto il Castagno possiede la connotazione di un castigo: beninteso, una forma di castigo del tutto inaccettabile (e come tale ben degna, a sua volta, dell’immancabile sanzione ufficiale) ma non perché a danno, prevaricazione, offesa di una specchiata innocenza, bensì  per la sua pretesa di sostituirsi al potere legittimo, di surrogare il monopolio della forza in dote all’apparato statale, con il suo team di funzionari abilitati ad hoc, al centro Vanina e, in gravitazione attorno a lei, l’universo correlativo di sottoposti e di dirigenti. Non spetta all’offeso punire e tanto meno in maniera atroce ed esorbitante. Resta che di punizione si tratta; da parte di una delle vittime di Palma Cusimano.

Alla cupa atmosfera dominante non mancano invero gli anticorpi, anzitutto quelli in dotazione alla serie in parola. Come gli altri romanzi con la Guarrasi protagonista, anche questo possiede due versanti che corrono paralleli: uno relativo al “caso” in questione, l’altro inerente a Vanina stessa, alla sua personale vicissitudine familiare e affettiva. Questa bipolarità non è un’esclusiva, si riscontra agevolmente anche altrove, ad esempio nei romanzi di Giancarlo De Cataldo sui casi affrontati e risolti, in quel di Roma, dal pubblico ministero Manrico Spinori. Per stare alla Cassar Scalia, ci limiteremo ad annotare alcune prerogative di Vanina, ben radicate in un quotidiano tutto sommato ordinario e rassicurante: la bulimia che la vuole consumatrice di refezioni copiose anche se inabile personalmente alla più elementare tecnica culinaria; la sua passione per i film su Sicilia e siciliani, che il vicequestore ama rivedere in privato, magari in compagnia di qualche ospite coi medesimi interessi cinematografici; l’inguaribile e in definitiva amabile soggezione al fumo, non meno in ufficio che a casa propria, senza che mai si tratti dell’ultima sigaretta (felicissima libertà da una censura oggi sempre più invadente e fastidiosa, tanto più se propagandata come indiscutibile moralità, privata e pubblica).

In questa sede, comunque, simili alleggerimenti non basterebbero; ed ecco il ricorso ad una serie di incrementi narrativi, a partire dallo sbocco della relazione di Vanina (da lei stessa temuta e lungamente respinta) con il magistrato palermitano Paolo Malfitano. Fa riscontro, secondo la tendenza generalizzata alla costruzione oppositiva, il fallimento del progetto matrimoniale di Costanza (Cocò) Calderaro, nata dalle seconde nozze della madre di Vanina e non meno risoluta della sorella maggiore, anche se la sua fermezza si esprime nel mandare a monte, e ben comprensibilmente, quelle nozze in verità inopportune, che l’avrebbero legata a un giovane e fin troppo rampante professore universitario, pronto a qualsiasi compromesso pur di bruciare le tappe della carriera accademica.

I tasselli, ancora una volta, si corrispondono e si oppongono secondo una dinamica accuratamente calcolata. Come avviene del resto per i personaggi maschili, se alla compensazione dell’ispettore Spanò, gratificato da un nuovo rapporto affettivo dopo l’infedeltà e l’abbandono della moglie, risponde l’improvviso lutto del commissario in pensione Biagio Patanè, cui la consorte muore. Le pagine finali del romanzo testimoniano l’una e l’altra novità, integrando di nuovo l’happy end con lo scioglimento infelice.

In uno scambio di battute con una collega, articolando e poi scartando risolutamente una ricostruzione ipotetica e provvisoria della vicenda ancora in corso, Vanina ha modo di commentare: “Manco in un romanzo funzionerebbe”. Se la realtà ha sponde assai ferme, il romanzo si riserva la sua libertà, ma Il Castagno dei cento cavalli ne consiglia e ne pratica un uso temperato, che qui in effetti va tutto a vantaggio dell’esito.

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