Capita ancora oggi che alcuni nostalgici del comunismo celebrino con viva emozione le gesta dell’Armata rossa durante la Seconda guerra mondiale. Uno degli effetti collaterali della scellerata invasione russa dell’Ucraina è stato il ritorno di certe teorie della propaganda comunista sull’eroismo dei soldati sovietici, visti come inarrestabili difensori della libertà e oppositori del male assoluto nazista; oggi i nazisti sono gli ucraini e l’esercito di Putin ricopre il ruolo della grande e inarrestabile forza liberatrice che tutto il mondo dovrebbe ammirare.
Ma la propaganda è menzognera oggi ed era menzognera 80 anni fa. La Storia, quella con la “S” maiuscola, non può essere serva della propaganda di una particolare nazione o di una particolare ideologia. E quella stessa Storia riconosce all’Urss di Stalin di avere dato un contributo decisivo alla sconfitta del nazismo in Europa, ma ne ridimensiona il ruolo di “forza liberatrice” a livello geopolitico. Perché come si può definire “liberatore” un esercito (e tutto l’apparato burocratico alle sue spalle) che opprime violentemente le popolazioni “liberate”, con stupri, distruzione, esecuzioni sommarie e deportazioni che avrebbero lasciato un segno indelebile quanto quello dei nazisti sconfitti?
La storia dei civili cecoslovacchi deportati nel Gulag durante e dopo la Seconda guerra mondiale è un ottimo strumento per comprendere appieno come l’etichetta di “forza liberatrice” associata all’Unione Sovietica sia del tutto fuori luogo. Vincere una guerra contro un’ideologia malefica non significa essere liberatori.
L’ispirazione a scrivere di questo argomento viene da un libro che meriterebbe di essere stampato anche al di fuori dei confini della ex-Cecoslovacchia: Odvleceni (“Deportati”), di Peter Juščák, scrittore per passione e già collaboratore di numerose testate slovacche e dell’Istituto per la memoria nazionale di Bratislava (Ústav pamäti národa, altra fonte di ispirazione con le video testimonianze di Oral History presenti sul sito web istituzionale).
Attraverso una dettagliatissima ricerca, l’autore ricostruisce le storie di tante persone costrette a lasciare la propria casa da un momento all’altro, per essere trasferite a bordo di carri bestiame, viaggiando anche per diverse settimane, in campi di lavoro sperduti nelle più remote regioni dell’Urss. Juščák si limita a lasciar parlare i testimoni diretti, tratteggiando abilmente il contesto storico dove necessario. E così leggiamo del martirio, nel 1944, della sedicenne Anna Kolesarova, beatificata da Papa Francesco nel 2018, uccisa per non essersi voluta concedere sessualmente a un soldato dell’Armata rossa. E leggiamo la testimonianza di Mária Toronyiová, che all’epoca era solo una bambina e ricorda come “papà era in Russia […]. Mamma si prendeva cura da sola di me, che avevo tre anni, di mio fratello che ne aveva sette e di mia sorella, che aveva solo nove mesi. Il 17 dicembre 1944 fu violentata, fino alla morte, da due soldati russi”. Nei mesi seguenti sarebbero spuntate moltissime storie simili a quella di Mária, ovunque passasse la forza “liberatrice” sovietica.
Se questo genere di violenze poteva essere considerato istintivo e frutto della barbarie dei singoli soldati (attivamente incoraggiate però dai vertici militari e politici dell’Urss), lo stesso non si può dire delle deportazioni nel Gulag: “Erano state chiaramente programmate a tavolino”, racconta Juščák. ”Esiste la documentazione che conferma come nei campi sovietici si avviò un processo di preparazione per l’arrivo dei deportati cecoslovacchi”.
In moltissimi casi gli uomini rastrellati sommariamente venivano deportati con lo status di “prigionieri di guerra” senza che in realtà appartenessero alle forze armate o alle milizie paramilitari del governo fantoccio filo-nazista della Slovacchia del tempo. In altri casi si “chiedeva” alla gente di contribuire alla ricostruzione dell’Unione Sovietica con lavori che dovevano durare “qualche giorno”, ma che invece durarono nella maggior parte dei casi diversi anni. È il caso di Štefan Csorba, ferroviere: deportato nel novembre del 1944, sarebbe tornato a casa solo dopo cinque anni.
C’erano poi le deportazioni per ragioni politiche. Spesso gli esponenti comunisti locali approfittavano della situazione per regolare i propri conti e liberarsi di avversari politici o nemici personali. Bastavano scuse banali a determinare il destino di qualche sventurato senza colpe: Juraj Ružbaský, ad esempio, fu deportato per il semplice fatto che parlava tedesco ed era stato costretto dai nazisti a fare da interprete. Non essendo stato mai nemmeno identificato tramite qualche documento, pensarono, semplicemente, che fosse tedesco. E quindi passò due anni nei campi di lavoro in Ucraina.
L’apparato burocratico dell’Nkvd aveva anche preparato una lista di nomi di profughi che avevano abbandonato la Russia zarista o l’Unione Sovietica prima della guerra per stabilirsi in Cecoslovacchia. Questi erano considerati “traditori” per aver avversato, direttamente o indirettamente, la “rivoluzione”. Non importa che fossero in molti casi fuggiti prima: per Stalin e i suoi si trattava di un “peccato di omissione”, e quindi meritavano la deportazione e le privazioni del Gulag.
Quando pensiamo alla parola “deportazione”, le immagini che ci vengono in mente sono quelle dell’Olocausto e dei carri bestiame destinati alle fabbriche dello sterminio nazista. Le condizioni in cui viaggiarono i deportati nel Gulag sicuramente non furono migliori: in alcuni casi, anzi, si potrebbe dire che furono persino peggiori. Il viaggio di Jozef Iškovič, ad esempio, durò sei settimane. Delle sessanta persone nel suo vagone, ne arrivarono vive a destinazione solo diciotto. Iškovič racconta come sia sopravvissuto bevendo la propria urina, vedendo come gli altri lentamente e inesorabilmente morivano di sete. Gejza Pásztor, invece, racconta un episodio surreale: due suoi compagni di sventura “riuscirono a fuggire rimuovendo delle assi dal pavimento del vagone in cui viaggiavano e lasciandosi cadere sui binari sottostanti. I soldati non batterono ciglio: fecero fermare il treno alla stazione più vicina e caricarono due ucraini”. Pásztor racconta anche di come “all’arrivo i corpi dei morti venivano gettati ai bordi della ferrovia. Noi non sapevamo chi fossero, da dove venissero, o che ne sarebbe stato [dei loro corpi]”.
Giunti a destinazione, i deportati venivano generalmente sfruttati come forza lavoro a bassissimo costo, con la prospettiva di venire liquidati una volta esaurita la propria capacità produttiva. Gli inverni oltre il circolo polare artico erano lunghi e gelidi, e l’estate non era comunque vista come un sollievo per via della mancanza del buio e delle conseguenze sul sonno. La descrizione più drammaticamente efficace di cosa fosse un lager sovietico (nel suo caso il campo “Krasnaja Zvezda”, ovvero “Stella Rossa”) è di Pavel Tunak: “La direzione del campo era solita spedire i prigionieri a lavorare a decine di chilometri di distanza, attraverso paludi fangose. Oltre il recinto interno, feroci cani si agitavano in continuazione. Le guardie si sfidavano a colpi di insulti e bestemmie, gareggiando a chi avrebbe colpito o preso a calci i prigionieri nella maniera più brutale e dolorosa. Più ci si allontanava dall’Europa, e più i colpi di martello diventavano dolorosi, le maledizioni gravi e le maniere brutali. Così anche io, che prima ero solito arrossire di fronte alle ragazze, mi stavo trasformando in una bestia. Tutto questo avveniva in un luogo grottesco, in mezzo a centinaia di stelle rosse di varie dimensioni, alcune grandi anche due metri. E su questi idoli pagani vegliavano, con la massima vigilanza, i nostri aguzzini”.
I prigionieri ricevevano cibo insufficiente, e la razione era commisurata al lavoro svolto. Jan Kiska racconta come una guardia gli disse “Se lavori, muori di fatica. Se non lavori, muori di fame. In un modo o nell’altro, ci rimani secco”.
Della stragrande maggioranza degli oltre settemila deportati cecoslovacchi in Urss si è persa ogni traccia. Di alcuni si sa che sono morti solo perché testimoni diretti hanno potuto dare la notizia ai familiari, una volta fatto ritorno in patria. E quegli stessi “fortunati” che sono sopravvissuti sono rimasti segnati per sempre nella salute sia fisica che mentale.
Il processo di rimpatrio fu molto meno organizzato rispetto alla deportazione, e durò fino al 1955. Molti dei rimpatriati si resero conto immediatamente che le loro sventure non erano ancora finite: il comunismo cecoslovacco avrebbe continuato a opprimerli, seppur in maniera minore rispetto all’inferno del Gulag, fino al 1989.
La testimonianza di Jozef Bobalik, arrestato nel 1948 per aver letto pubblicamente un testo che ridicolizzava Stalin, è probabilmente quella che simboleggia meglio la profondità del dolore e della disperazione cui andava incontro un individuo deportato in Urss in quegli anni: “Mia madre era a due metri da me, ma la guardia che mi aveva in custodia non permise nessun contatto: né un abbraccio, né la possibilità di prendere le poche cose che lei aveva preso per me. E lei piangeva disperata. Allora le dissi ‘Mamma, non piangete. Prometto che tornerò”. Bobalik mantenne la promessa, ma al suo arrivo, della madre potè abbracciare soltanto la lapide al cimitero del suo villaggio.
Il capitolo tragico delle deportazioni nel Gulag si chiuse quindi ufficialmente nel 1955. Ma il male di cui si macchiarono i regimi comunisti, il dolore che causarono in tanti innocenti, hanno avuto conseguenze che arrivano fino ai giorni nostri. Per i molti testimoni diretti che popolano il libro di Peter Juščák e gli altrettanto importanti documenti testuali e audiovisivi dell’Istituto per la memoria nazionale di Bratislava, condividere la propria esperienza è stato come rituffarsi nell’inferno di dolore e angoscia vissuti in gioventù. Ma è attraverso le loro storie che “la” Storia può permettersi di giudicare l’Unione Sovietica di quegli anni per quella che realmente è: una delle potenze che hanno sconfitto il nemico nazista, ma che invece di liberare le popolazioni ad esso soggiogate, le ha sottoposte a privazioni, violenze e sofferenze che sarebbero durate per altri 41 anni. I veri “liberatori” sono quindi i testimoni, e con loro i tanti uomini e le tante donne che, giorno per giorno, hanno lavorato affinché nel 1989 finalmente anche l’altra grande ideologia totalitaria del XX secolo, quella comunista, finalmente cessasse di esistere.
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