Il lavoro scientifico e letterario al tempo stesso di Stefano Lucchini, Giovanna Pimpinella e Andrea Carlo Cappi – C’era una volta un ponte. Il ponte sospeso (Palombi, 2023) – colpisce per la sua particolarità: prima la storia ragionata e documentata dei ponti in ferro, vere e proprie opere architettoniche tecnologicamente rivoluzionarie per l’epoca della loro costruzione, poi un romanzo giallo centrato su uno di essi – Il Soldino – che percorre cento anni di storia romana, dal 1864 al 1964.



L’intreccio tra il saggio e la narrazione dà più valore al primo e al secondo, ciascun genere rinforzando l’altro. E il godimento per il racconto di Cappi, affermato scrittore, si aggiunge all’interesse per la rassegna di realizzazioni ardite che videro la luce nella prima metà dell’Ottocento con diverse fortune. Il protagonista della storia, Il Soldino, fu per esempio distrutto ottant’anni dopo l’edificazione (avvenuta nel 1863) per lasciare il posto all’odierno manufatto in pietra che scavalca il Tevere per condurre alla chiesa di san Giovanni dei Fiorentini.



È interessante notare, e gli autori lo fanno, come quel genere di manifestazione del genio ingegneristico dell’epoca trovi la sua prima espressione italiana nel regno borbonico di Ferdinando II che inaugurò la sua creatura sul Garigliano già nel 1832 e lo fece di persona con un pesante contingente di cavalleria al galoppo. Il ponte Real Ferdinandeo esiste ancora, essendo stato restaurato nel 1998 dopo la distruzione avvenuta nel 1943 ad opera dei tedeschi.

Tornando all’esemplare romano che dà vita al volume, si può ricordare come il nome con il quale era conosciuto – Il Soldino – deriva dalla circostanza che per attraversarlo occorreva versare un baiocco a persona in base a un diritto di passaggio concesso per 99 anni dall’allora pontefice Pio IX alla società che lo aveva realizzato. Indubbiamente un progenitore dell’istituto per project financing come oggi lo conosciamo.



E chissà se Massimo Troisi e Roberto Benigni non abbiano preso spunto da questa usanza per una delle scene più esilaranti del loro capolavoro cinematografico Non ci resta che piangere: Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!

Nel nostro caso l’infrastruttura – come si direbbe oggi – per l’attraversamento del fiume della capitale nasconde un segreto che solo chi vorrà leggere il volume, a sua volta immaginato come un rimando tra finzione e realtà, potrà scoprire.

Volendo soffermarci per un poco sulle cronache dei nostri giorni vale la pena ricordare come la tecnologia poggiava e poggia anche sulla disponibilità di materie prime disponibili: al tempo il ferro prodotto in quantità e qualità da importanti stabilimenti calabresi, oggi l’acciaio sfornato dall’ex Ilva di Taranto la cui sopravvivenza è messa in discussione dalle discutibili politiche dei proprietari indiani di Arcelor Mittal, impegnati in uno sfibrante braccio di ferro con il Governo del Paese.

Merita un accenno anche la resistenza al cambiamento posta dalla categoria che più di altre si sentiva – ed era – minacciata dal progresso: i barcaioli addetti al traghettamento di chi volesse passare da una sponda all’altra del fiume. Un’attività destinata a scomparire con l’utilizzo sistematico dei ponti, i cui proventi vennero difesi con i denti attraverso la richiesta di risarcimenti rivolta ai proprietari delle concessioni. Cambiano le epoche, restano i problemi.

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