Nel mondo dell’informazione è in atto una guerra senza confini e senza scrupoli. In primo luogo, per accaparrarsi il business delle notizie e della pubblicità e, dunque, per il dominio di alcune testate a danno di altre. Ma anche per riformulare l’idea stessa di notizia e di affidabilità.
In questo clima stiamo registrando a livello internazionale la chiusura o il declino di molte storiche testate, ma anche una riformulazione delle regole basilari del giornalismo. La combinazione dei due fattori ha indotto alcuni acuti osservatori a porre addirittura la questione sulla possibilità di sopravvivenza del mondo dell’informazione. Senza parlare di una conseguenza deleteria di questo clima che rischia di minacciare le fondamenta stesse della democrazia: una polarizzazione sempre più rigida dei gruppi sociali e la perdita del senso di popolo come comunità plurale di soggetti con culture e tradizioni diverse.
Un aiuto a capire gli stravolgimenti in atto nel mondo dell’informazione ci viene dal volume di Jill Abramson Mercanti di verità (Sellerio, Palermo, 2021). La Abramson, docente di giornalismo ad Harvard e prima donna a dirigere il New York Times (dal 2011 al 2014), ci offre una riflessione approfondita e intelligente sul giornalismo contemporaneo che nasce da una lunga esperienza personale e da un’attenta analisi dei casi di quattro testate statunitensi: due storici quotidiani nati cartacei (New York Times e Washington Post) e due siti online di informazione (BuzzFeed e Vice).
La crisi del giornalismo cartaceo
Il difficile momento del mondo dell’editoria è evidenziato da alcuni dati. Nel decennio 2006-2016, negli Usa l’industria dei giornali, secondo i dati forniti dalla Abramson, ha “perso il 60% del personale rispetto ai livelli del 2000”.
Soprattutto in questi anni si sono verificati cambiamenti strutturali, di cui occorre prendere atto. Il primo e più importante è il calo della diffusione cartacea dei giornali e il conseguente passaggio dei lettori e degli investimenti pubblicitari nel digitale. Il New York Times, per esempio, che vendeva mediamente 1.183.000 copie cartacee al giorno nel 1993, nel 2020 era sceso a 410.562 copie.
Il secondo aspetto è il ruolo sempre più dominante dei social media come fonte di informazione. Si pensi che a giugno del 2021 Facebook, con i suoi 2,5 miliardi di utenti, risultava la più grande fonte di informazione al mondo.
Questi fattori hanno impresso nella vita dei giornali una rivoluzione. Il crollo delle vendite dei quotidiani cartacei s’è accompagnato con la necessità di puntare sul digitale. Ciò ha favorito la crescita dei lettori su internet, che è risultata di livelli eccezionali in quotidiani come Washington Post e New York Times (quest’ultimo, nel 2021, ha toccato il tetto di 4,5 milioni di utenti unici al giorno).
La scelta del Digital First, operata da molti quotidiani, ha comportato una riformulazione dei tempi di lavoro, una caduta del muro di separazione fra lavoro redazionale e introiti commerciali e, soprattutto, una revisione dei criteri di valutazione del lavoro giornalistico, premiato in base ai consensi ottenuti sulla Rete piuttosto che per la qualità dei contenuti.
Basta un’immagine per chiarire. Fino al 2013 negli uffici del Washington Post faceva bella mostra di sé la storica prima pagina con la scritta “Nixon si dimette”, che indicava quanto potere avesse una corretta informazione come “cane da guardia della democrazia”. L’inchiesta sul “Watergate” condotta dal quotidiano americano aveva costretto, infatti, il capo della Casa Bianca a dimettersi.
Invece con l’avvento come editore al Washington Post di Jeff Bezos, il magnate fondatore di Amazon, alle pareti della redazione – scrive la Abramson – “dominavano i monitor a schermo piatto che visualizzavano statistiche del traffico in tempo reale sul numero di lettori che stavano guardando un articolo”. Cambiavano d’un colpo l’obiettivo del lavoro giornalistico e la modalità di valutazione delle notizie. La ricerca ossessionata dei consensi per accrescere gli introiti pubblicitari prendeva il posto dell’inchiesta giornalistica approfondita alla ricerca della verità. Alla verifica attenta della notizia, tipica del grande giornalismo tradizionale, si sostituiva l’urgenza di diffondere informazioni, lasciando che fossero gli stessi lettori a decidere se esse erano vere o false.
Nell’era dei new media e dell’intelligenza artificiale, in questo modo, si è perso il senso dell’oggettività e verità dei fatti, con conseguenze gravissime anche per la democrazia. Lo abbiamo visto nel ruolo decisivo che hanno avuto Facebook e Twitter nella elezione di Trump alla Casa Bianca e nella sua scomparsa dal dibattito pubblico dopo l’elezione di Biden e la conseguente decisione delle piattaforme digitali di cancellare i suoi profili.
L’informazione può sopravvivere?
Con la prevalenza nel mondo dell’informazione delle grandi piattaforme dei new media, tutto il comparto ha dovuto sempre più fare i conti con un calo di fiducia. L’informazione, viene da chiedersi, ha un futuro? E quale?
La Abramson si dimostra ottimista. “Credo – scrive – che ci sarà sempre bisogno di informazioni affidabili e di un giornalismo di qualità”. E spiega: “Le notizie di qualità presuppongono un giornalismo originale che scava per trovare la vera storia che si cela dietro la storia”.
Non è un caso che la Royal Swedish Academy abbia deciso di assegnare per il 2021 il Nobel per la pace a due giornalisti: la filippina Maria Ressa e il russo Dimitry Muratov. Infatti, con i loro tentativi di salvaguardare, nei rispettivi Paesi, la libertà di espressione, quei giornalisti hanno anche lottato per la democrazia e per la pace. Un segnale di speranza per un’informazione che resti al servizio della verità dei fatti e, perciò, della gente.
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