Chi è nudo non teme l’acqua. Un viaggio clandestino di Matthieu Aikins (Iperborea, 2023) è un libro che dovrebbero leggere in tutte le scuole del mondo occidentale, lo stesso mondo che, aggrappato ai suoi immeritati privilegi, respinge chi si permette – da straniero, profugo o rifugiato – di scalare i gradini delle nostre coste. È la storia dell’amicizia tra un giovane afgano e un canadese. Matthieu, giornalista che si addentra nei pericolosi meandri dell’Afghanistan per i suoi primi reportage, scopre Omar come guida e poi scoppia quell’incantevole incantesimo che è l’amicizia, per cui puoi e vuoi fare di tutto, anche fingerti di Kabul e partire con lui per il viaggio più lungo.
I numeri da cui siamo bombardati ci lasciano spesso indifferenti, ma occorre fermarsi un istante a pensare che ogni anno ci sono più di cento milioni di persone che lasciano la propria casa, il proprio letto, la propria cucina e i propri cari, per andare via e rischiare tutto. È necessario accorgersi di continuo che c’è questo fiume immenso di cento milioni di persone che scappano, è necessario rendersene conto perché c’è davvero qualcosa che non funziona nel nostro mondo. Questo libro fa camminare a fianco di Omar, dentro i suoi timori, le remore, le angosce e le paure di chi deve andare via affidandosi ai “trafficanti”, superando confini, barriere, pestaggi, prigioni, minacce, mari pericolosi, campi profughi sovraffollati e disumani. Sono fatti che più o meno tutti sappiamo o crediamo di sapere e preferiamo non vedere. Matthieu Aikins ci prende per mano dentro questo mondo dove le persone emigrano perché “qui” è diverso da “là” … io vengo da un posto dove loro vorrebbero andare, ma non possono. Toccasse a me impazzirei, invece per loro è la normalità.
Esiste questa disparità profonda, questo fossato quasi senza fondo tra “noi” e “loro”, tra il “nostro” e il “loro” mondo, e occorre pur dire, anche se ci infastidisce, che di questo divario siamo un po’ colpevoli, forse solo per non rendercene conto; ed è vero che il “nostro mondo” ha da tempo deciso che per mantenere i suoi privilegi – che peraltro non abbiamo fatto nulla per meritare – è necessario difenderci da quest’orda famelica che scappa da guerre e fame e pretende di entrare nei nostri confini. Occorre alzare muri, stendere reticolati, serrare le fila, dare miliardi alla Turchia perché se li tenga lì a ingrossare i campi profughi dove si vive in condizioni pietose.
Come dice Steinbeck: “la gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione, poi disgusto, infine odio per la gente affamata”. Nel 1989 soltanto quindici frontiere nel mondo erano dotate di muri o recinzioni; nel 2016 erano settanta, senza contare quelle in corso di progettazione o in costruzione. Il viaggio di Omar dura quasi un anno, mai – in tutto questo tempo in cui cammina, scavalca, naviga – mai è certo di riuscire ad arrivare; arrivare è il coagularsi della speranza, il sogno di cui ci si nutre attraversando tanti inferni, la vita viene dopo, e non è detto che non sia più difficile, più angosciosa che sulle piste dei trafficanti.
Finisce bene questa storia e si tira un sospiro di sollievo quando Omar è in salvo, sostenuto dall’amore per la sua donna e del suo amico. Forse leggendo questo libro capiterà, magari incrociandoli per strada o davanti ad un supermercato con una mano tesa, o come è successo a me un paio di settimane fa, quando dopo aver bucato la bici alle otto di sera in fondo a Viale Padova a Milano e miracolosamente ho trovato un negozietto che ripara bici e monopattini, sono stato accolto da tre afgani sorridenti che mi hanno risolto in un niente il mio “grande” problema e sono rimasto qualche minuto a parlare di bici col cambio Campagnolo, forse capiterà, come è successo a me, di guardarci negli occhi e sorriderci, con dentro tutto. Come ha detto mia figlia, se tutti leggessero questo libro il mondo sarebbe migliore.
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