Andrea Camilleri nella Scomparsa di Patò racconta la sparizione inspiegabile del ragionier Antonio Patò, specializzato nel sostenere la parte di Giuda durante il Mortorio, l’annuale sacra rappresentazione del Venerdì Santo: durante il Mortorio del 1890, però, Patò, una volta caduto, come da copione, nella botola grazie alla quale il suo personaggio da anni esce regolarmente di scena, sparisce, e nessuno ne troverà più traccia.



Diverse voci si alternano nei quadri che costituiscono il racconto, racconto che Camilleri immagina di trarre dai documenti conservati in polverosi faldoni d’epoca. E di faldoni e documenti d’epoca Enzo Ciconte, docente di storia della criminalità organizzata nell’Università di Roma Tre, deve averne compulsati davvero moltissimi per Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso, Salerno editrice 2019. Il racconto si apre la sera del 1° febbraio 1893, in Sicilia, quando Santa Sorge, appena scesa dal treno alla stazione di Trabia, si ferma di fronte al ponte sopra il burrone Curreri, perché qualcosa ostruisce il passaggio: è un’enorme macchia scura, che non fa presagire nulla di buono. La macchia informe si rivelerà il cadavere di un uomo, e quando il brigadiere accorso lo rivolta per vedere chi sia (perché nelle tasche non c’è nulla di utile per identificarlo), si scopre che il morto ha il petto coperto da molte pugnalate. Quelle coltellate cambiano tutto: impossibile pensare a un incidente; si tratta di omicidio.



Pochi riconoscono nel cadavere il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, che, nel frattempo, alla stazione di Palermo era atteso, invano, dalla moglie e dalle figlie. E qui la storia si complica: le donne pensarono che Notarbartolo si fosse fermato a una stazione intermedia e avesse poi perso il treno, ma egli non scese nemmeno dal treno successivo, l’ultimo della giornata. Le ricerche ebbero risposta negativa, ma il capostazione omise di riferire che un cadavere, in effetti, giaceva sul ponte di Curreri, come diceva un telegramma ricevuto da poco e che aveva in tasca. Del telegramma non aveva dato notizia neanche ai superiori perché era stato ligio alla lettera del regolamento, che imponeva di redigere un verbale se fosse caduto un collo di merci, ma non parlava esplicitamente del caso di un uomo che fosse stato buttato o si fosse buttato dal treno. “Era un imbecille quel capostazione? Niente affatto era un siciliano di fiuto”. Così lo bollò Leopoldo Notarbartolo, figlio di Emanuele.



Alla stazione c’era anche Antonio Piazza, bottaio che aveva accompagnato Notarbartolo: anch’egli ebbe un comportamento strano, perché non indicò la carrozza dov’era salito il marchese, che pure conosceva, come affermò un testimone: “La persona che accompagnava il commendator Notarbartolo gli porse la carabina ed altri oggetti e poi andò a prendere posto in una vettura di terza”. Già, perché Emanuele Notarbartolo girava sempre armato, dopo aver subito un sequestro di persona.

Ma chi era la vittima? Egli era stato dal 1° dicembre 1874 sindaco di Palermo: fu un sindaco onesto, attento, come diremmo oggi, ai problemi del decoro e dell’arredo urbano, a dare respiro e luce a una città che ne aveva davvero bisogno, e da subito impegnato a realizzare l’aspirazione dei palermitani: avere un teatro all’altezza della città. Appena insediatosi come sindaco, Notarbartolo scoprì che da un fondo affidato a Raffaele Palizzolo, assessore all’annona nel 1872, mancavano 1600 lire; perciò invitò Palizzolo a mettersi in regola, cosa che egli fece subito. Era la prima, non certo l’ultima volta, che i due si incrociavano: si sarebbero ritrovati al Banco di Sicilia, dove Notarbartolo, con la sua intransigente onestà, cercando di riparare le molte magagne della gestione, si scontrò con Palizzolo, politico dalle vaste clientele e dalla raccomandazione facile, concessa a tutti, onesti e disonesti. Due modi diversi, quelli di far politica di Notarbartolo e Palizzolo: questi riceveva la mattina, a letto, come i nobili e i signorotti del  tempo antico, un vezzo finalizzato a mostrare all’interlocutore vicinanza e insieme una certa distanza. Palizzolo fu identificato come mandante dell’omicidio, che sarebbe stato eseguito materialmente da Giuseppe Fontana, “addetto alla peggior mafia di Villabate”.

Il volume di Ciconte, dedicato “a tutte le vittime innocenti di mafia, ai loro parenti, a chi ha raccontato le loro storie e ricordato i loro nomi” ripercorre le difficili tappe dell’inchiesta, avviata a Palermo, e poi i processi, svoltisi in varie città: prima a Milano (perché?), dove il tribunale fu palcoscenico di un vero spettacolo con centinaia di testimoni siciliani, che si esprimevano in un idioma reso comprensibile solo da interpreti; poi, a Bologna, dove Palizzolo e Fontana furono condannati a 30 anni; quindi a Roma, dove la Cassazione, il 26 gennaio 1903, invalidò il processo di Bologna per vizio di forma (un testimone non aveva prestato giuramento); infine, a Firenze, dove gli imputati vennero assolti. E mentre l’Avanti titolava “La riscossa della mafia”, Palizzolo rientrò trionfalmente a Palermo, anche se poi il suo astro politico si appannò.

Ciconte afferma che i giudici di Bologna emisero una netta sentenza di condanna, perché erano convinti di aver trovato, e di fatto avevano, le prove per condannare Fontana e Palizzolo. I due si salvarono perché la Cassazione, strumentalmente, decise di cancellare la sentenza. L’omicidio di Notarbartolo rimase senza colpevoli, come senza colpevoli era rimasto lo scandalo della Banca romana. Emergeva una prepotente impunità dei potenti che avrebbe avuto in seguito un grande avvenire nella storia d’Italia. “Fu uno scontro di potere, aperto e sotterraneo, quello che si giocò in quegli anni (…) Ne emerge un quadro dinamico della società del tempo che evolve e cambia, ma i protagonisti che vengono alla ribalta (…) mostrano i tratti negativi di un potere e di una classe dirigente ampiamente intesa, che avranno modo di rivelarsi nella storia successiva (…) con una sorprendente continuità”.