Quell’anziana signora francese di Compiègne, nord di Parigi, riscaldando il minestrone diede un’occhiata furtiva alla parete. A quella che immaginava fosse niente di più che una bellissima icona religiosa greca: stava lì da chissà quanto tempo tra minestre da far bollire, polli da disossare, piatti da sciacquare. Non poteva sospettare che l’immagine valesse decine di milioni di euro: era appesa lì da chissà quanto. Il quadro, da parte sua, mai si vantò d’essere prezioso: “Lei, signora, non sa chi sono io. Non immagina di chi sono figlio!”. Stette lì, muto, a sfidare la disaffezione della donna che, ignara, lo scherniva d’indifferenza. E, forse, nemmeno sapeva perché stesse lì: “La bellezza non ha causa: esiste – scrive Emily Dickinson – Inseguila e sparisce. Non inseguirla e rimane”.
Una cosa, poi, è bella anche appesa alla cappa di un camino caliginoso, con le luci spente, senza nessuno a guardarla. Un giorno, chissà perché, la donna decide di far valutare quel quadretto. La scoperta è scioccante: quell’opera è dell’anno Duecento, ha più di ottocento anni di storia. L’autore è Cenni di Pepo che, forse per passare in sordina pure lui, si fece chiamare Cimabue. Tra capolavori d’arte e di magia, scoprì il talento di un ragazzo ch’era a bottega da lui, un certo Giotto di Bondone. Questa è la bellezza: l’uomo non la cerca, lei non fa la preziosa ma quando arriva è come uno schiaffo improvviso che fa ruotare il mondo intero su se stessa, per troppo stupore. Nessuna interrogazione: regna per diritto divino.
Quest’opera d’arte – intitolata Il Cristo deriso – è la mia fotografia dell’anno 2019. Nel suo nome è racchiusa la sua stessa identità: c’è il massimo di tutta la bellezza possibile che è Cristo e il massimo di tutta l’indifferenza immaginabile, ch’è la derisione. Il Cristo deriso, pulito della sua fattezza religiosa, è la bellezza derisa. Quel muro della casa di Compiègne è l’immagine della vita quotidiana: ci sono così tante cose belle al mondo che sono troppe per riuscire ad accettarle. C’è una bellezza che è così vicina a noi – appesa al muro, sotto gli occhi, ad un passo dal naso – da apparire impossibile: “Impossibile che sia vera tutta questa gioia!” si convince la gente indaffarata.
Invischiati dentro le faccende quotidiane, sovente ci scappa l’appuntamento con la bellezza, quella ch’era venuta apposta sotto casa nostra, a suonarci il campanello. Di più: che avevamo come ospite a casa nostra e manco ci siamo accorti di chi fosse. Eppure bastava poco, uno sguardo attento, devoto, appassionato: “Non ci è voluto molto per capire che si trattava di un’opera d’arte del pittore italiano Cimabue” ha detto l’esperto d’arte Jerome Montcouquil che l’ha certificata. Per anni è rimasta là, appesa al muro: lei a guardare la donna – “Prima o poi mi riconoscerai, e sarà festa del cuore!” -, la donna a pulire l’insalata, a disossare il pollo, a riciclare i pezzi avanzati. Fino al giorno in cui un dubbio l’assale: “Ma quanto bello è quel quadro. Adesso, così per curiosità, lo faccio valutare”. Oltre ventiquattro milioni di euro, la risposta.
La bellezza ha una resistenza pazzesca all’indifferenza: resta in attesa per ottocento anni, certa che un giorno la riconosceranno. Accade così con quadri, uomini, bestiame. Soggetti, oggetti, complementi. È la maniera di flirtare della bellezza: si siede accanto come l’ultima arrivata, sta lì a fare la finta tonta, gode nel non essere riconosciuta. Sorride a fior di labbra nel vedere l’uomo passarle accanto senza riconoscerla. Poi, un giorno, accade che la donna casalinga la fissi un attimo di più, come, lungo la strada, ha la sensazione di avere già visto quella faccia. E il quadro si illumina: “Sono io signora. Sono ottocento anni che l’aspetto”. Avevano vissuto insieme nella cucina, separati sotto lo stesso tetto. Capita d’avere la bellezza in casa e di non riconoscerla. Fino al giorno in cui un occhio esperto la riconoscerà tale facendo di tutto per comprarsela e portarsela a casa. Quel giorno verrà spontaneo chiudere la stalla: i buoi, però, sono già tutti fuori.