Mentre nei giorni scorsi papa Francesco era in visita in Bulgaria e in Macedonia del Nord, mi trovavo, insieme a un gruppo di amici, a Salonicco – l’antica Tessalonica –, centro della Macedonia greca in cui giunse Paolo dopo aver avuto in sogno la visione di un macedone che invocava la predicazione del Vangelo, e dove nacquero i santi fratelli Cirillo e Metodio, missionari apostoli degli slavi. Il papa ha citato sia l’uno che gli altri, sottolineando che la visione di Paolo è un “simbolo dell’entrata del cristianesimo in Occidente”: mutò radicalmente i progetti dell’apostolo (“Lui andava verso l’Asia. È stata un mistero quella chiamata”), e segnò l’inizio dell’universalità del cristianesimo, oltre che della civiltà europea. Quanto a Cirillo e Metodio, ha richiamato al fatto che, “mentre si presagivano i segni premonitori delle dolorose divisioni che sarebbero avvenute nei secoli successivi, essi scelsero la prospettiva della comunione. Missione e comunione: due parole sempre declinate nella vita dei due santi e che possono illuminare il nostro cammino per crescere in fraternità”.



Non sono probabilmente in molti a riconoscere in questo lembo di terra apparentemente alla periferia d’Europa, fuori dai giochi delle grandi potenze e dei circuiti intellettuali che fanno opinione, un luogo e un’esperienza che nei millenni ha determinato per molti aspetti il volto del nostro continente. Eppure, già nel V secolo a.C. il greco Lisia aveva indicato in un avvenimento svoltosi in queste regioni, al passo delle Termopili nel 480, un fatto straordinario: “In quel giorno – asserisce l’oratore greco – instaurarono la libertà in Europa”. Un manipolo di eroici combattenti andò incontro alla morte, fino all’ultimo uomo, per impedire allo sterminato esercito persiano la conquista della loro terra. Era la sfida dei pochi contro i tanti; l’affermazione del valore della libertà e dell’onore prima del proprio benessere e comodità; dell’attaccamento alla patria fino all’estremo sacrificio; la coscienza che l’individuo non è l’inizio e la fine di ogni cosa, che ci si può sacrificare per la comunità e i figli anche senza speranza di soddisfazione immediata.



In una valle anche oggi solitaria, spopolata, dove solo una lapide ricorda l’eroismo di Leonida e dei suoi 300 soldati spartani, 2500 anni fa nasceva la coscienza che ha reso grande la civiltà europea; 500 anni dopo una misteriosa chiamata avrebbe dato un volto e un nome alla nostalgia della bellezza ultima che contrassegna il mondo greco; sarebbero trascorsi altri otto secoli prima che la consapevole e sofferta scelta di Cirillo e Metodio di una posizione propositiva ed aperta insieme – che oggi a molti sembra impossibile realizzare – gettasse le basi dell’unità dell’”Europa dall’Atlantico agli Urali”, per usare l’espressione di Giovanni Paolo II.



Parlando dei due fratelli di Tessalonica, Francesco ha usato l’espressione “comunione e missione, vicinanza e annuncio”, e ha coniato una definizione forte e apparentemente contradditoria, “ecumenismo della missione”, vedendo proprio in questo il loro significato per “l’avvenire della società europea”. Come conciliare una posizione – quella missionaria – che oggi talvolta viene identificata con un’imposizione fuori moda e politicamente scorretta di proprie opinioni, quasi una violenza nei confronti degli altri, con una posizione – altrettanto ambigua – di dialogo per il dialogo, nella tranquilla indifferenza per quanto l’altro ha da dire? In verità, in entrambe queste posizioni “manca l’uomo” (Gv 5,1-18), cioè quella stessa statura umana che aveva permesso alle Termopili di porre l’ideale al di sopra di sé, e a Cirillo e Metodio di superare perfino la propria tradizione e identità nazionale – la più alta e nobile allora esistente! – e di inventare una nuova lingua per poter annunciare Cristo (“Cirillo e Metodio, bizantini di cultura, ebbero l’audacia di tradurre la Bibbia in una lingua accessibile ai popoli slavi, così che la Parola divina precedesse le parole umane. Il loro coraggioso apostolato rimane per tutti un modello di evangelizzazione”). Una statura umana innamorata del vero, del bello e del buono che la rende realmente umana, che ne va alla ricerca, incessantemente e in ogni cosa, e condivide con chiunque le proprie scoperte, come un dono ricevuto.

Proprio in questo senso, ha proseguito il papa citando un’espressione di Giovanni Paolo II, Cirillo e Metodio “sono stati in un certo senso i promotori di un’Europa unita e di una pace profonda fra tutti gli abitanti del continente, mostrando le fondamenta di una nuova arte di vivere insieme, nel rispetto delle differenze, che non sono assolutamente un ostacolo all’unità”.

Ma la lezione di europeismo che papa Francesco ci ha dato in questi giorni non sarebbe completa se non citassimo l’ultima grande figura che è stata protagonista del suo viaggio, quella di Madre Teresa, vissuta in queste terre dopo che una dominazione secolare aveva cancellato tante tracce della splendida civiltà antica e bizantina. Una piccola donna che ha “saputo fare del bene ai più bisognosi, poiché ha riconosciuto in ogni uomo e donna il volto del tuo Figlio”, come ha detto papa Francesco recitando la preghiera alla posa della prima pietra del santuario di Madre Teresa. Un grandioso progetto sociale, una vera rivoluzione nell’assistenza sanitaria – quella operata da Madre Teresa e dalle sue missionarie, dettata unicamente dallo sguardo di Cristo, che può diventare anche quello di chi lo segue: uno sguardo che “nel peccato, vede figli da rialzare; nella morte, fratelli da risuscitare; nella desolazione, cuori da consolare”.