La parola poetica custodisce il dono di saper aderire con immediatezza alle tracce che l’intensità del desiderio incide sui gesti, sui rapporti che stabiliamo, sui sogni che coltiviamo. L’avventura umana è segnata dalla mancanza. C’è un vuoto che reclama di essere riempito, un bisogno che si fa attesa, domanda, ricerca di compimento: è così nella struttura che ci costituisce, dal profondo, e questa ferita, in forme più o meno esplicite e trasparenti, attraversa tutta la realtà in cui siamo immersi.



La regola vale anche per Paul Claudel (1868-1955). Vale per la sua opera artistica, ma prima ancora per la sua intera esistenza, in rapporto alla quale la parola letteraria non poteva che essere lo specchio di amplificazione e, almeno come tentativo, la via di una sofferta purificazione. Si può dire che tutto in Claudel sia stato trascinato dalla forza contagiosa di una aspettativa mai sazia: aspettativa di assolutezza, di perfezione, di totalità, desiderio di pienezza di senso, di accesso alla verità della gioia e della soddisfazione riuscita, che non mente e non inganna, che non delude e resiste a ogni limite, a ogni obiezione e a ogni riduzione.



Questa potenza di richiamo che non lasciava tranquilli, che tormentava e spingeva ad agire, in lui si è sempre intrecciata strettamente alla drammaticità dell’amore umano. L’esca dell’attrazione Claudel l’ha sperimentata in prima persona come irruzione dell’imprevisto che spalanca all’orizzonte infinito del tutto, promettendo la conquista di una felicità a portata di mano. Solo che non è senza costi: implica la fuoriuscita dall’io, la conciliazione con il tu di una alterità che si accoglie per colmare l’abisso del nostro non poter bastare a noi stessi.

Di una tale dialettica Claudel ha fatto oggetto di reinvenzione artistica perché, prima ancora, nella sua vita di diplomatico di successo e di paladino della grandeur francese, è passato attraverso la prova dolorosa dell’ambiguità di ogni dimensione dell’eros. Nel tranello dell’autoesaltazione unilaterale rischia sempre di franare l’attrattiva del massimo bene quando ci interpella e bussa alla nostra porta.



Nella cultura di larga diffusione del mondo di oggi, Claudel occupa posizioni diventate marginali, di nicchia. Una coltre di oblio sembra essersi distesa su una larga parte dell’eredità che ci ha lasciato, penalizzata in partenza, del resto, dall’esplicito marchio cattolico della professione di fede a cui egli legò baldanzosamente il proprio destino, nel pieno della giovinezza, avviandosi verso l’ultima decade dell’Ottocento parigino. Da noi, in Italia, molti lo ricordano come autore dell’Annuncio a Maria, e non vanno oltre nella presa di dimestichezza. Sulle scene capita di veder riproposto qualcosa della sua ricca produzione teatrale. Ma non si può certo dire che sia un autore in cima alle preferenze del pubblico più vasto. Nella scuola è uno dei grandi assenti, nella landa desolata di una tradizione che dubita sempre più delle sue radici e fatica a traghettare i tesori che nasconde condividendoli con i linguaggi delle nuove generazioni.

Non sono mancati negli ultimi anni, a dire il vero, piccoli segnali che, su piani diversi, hanno contribuito a tenere acceso il fuoco di un’attenzione rivolta a Claudel e all’universo della sua opera intellettuale. Simonetta Valenti, docente di letteratura francese a Parma, gli ha dedicato considerevoli energie, fornendo nuove traduzioni integrali, finemente commentate, di testi come Partage de MidiLe soulier de satin (La scarpetta di raso, il dramma teatrale unanimemente ritenuto il capolavoro di Claudel) e pochi mesi or sono Conoscenza dell’est, la raccolta di prose poetiche frutto del contatto con quella speciale “alterità” – l’Estremo oriente – in cui Claudel avviò la sua carriera di servitore dello Stato impegnato sul fronte delle relazioni internazionali.

Del compito di farlo conoscere sotto una luce aderente alla sensibilità del nostro presente si è incaricata Flaminia Morandi con il suo appassionato saggio di rilettura sintetica: Paul Claudel. Un amore folle per Dio (Paoline, 2018). Sono stati inoltre di recente riproposti, per la prima volta unitariamente tradotti in lingua italiana, i commenti di uno dei massimi estimatori del grande autore francese, che fin dagli anni Trenta del Novecento aveva imparato ad ammirarlo e non cessò mai di spendersi per farlo conoscere e apprezzare nel mondo tedesco, e certamente non solo qui. Mi riferisco al teologo della “gloria” Hans Urs von Balthasar, di cui Cantagalli e la Facoltà Teologica di Lugano hanno di recente pubblicato L’eros redento (Scritti su Paul Claudel tra teatro, poesia e teologia, a cura di chi scrive, 2021). In questa scia, con la collaborazione preziosa proprio di Simonetta Valenti, anche la rivista LineaTempo ha voluto porre la figura di Claudel al centro dell’ultimo numero, da pochissimo online (nuova serie, 29, marzo 2022: “Riscoprire Claudel oggi. Una luce sui drammi del nostro presente”).

Insieme al profilo generale della sua avventura creativa e del suo percorso biografico, nel dossier che è stato allestito si rimedita sui densi significati simbolici dell’Annuncio a Maria, sulla raccolta di Conoscenza dell’est, ma anche sul dramma giovanile Tête d’or, che già anticipa il tema dell’offerta di sé come vertice della gratuità che, per affermarsi nella sua verità, si rovescia nella volontà di salvezza dell’altro (è il tema di Violaine, e così pure della grande Prouhèze della Scarpetta di raso), per poi spostarsi sul poema del 1913 Cantata a tre voci, che disegna la strada della ricerca suprema a cui aspira ogni uomo intrecciando i dialoghi delle tre paradigmatiche figure di Laeta, Fausta e Beata.

Ma è notevole che il tutto si concluda con un intervento di Flaminia Morandi, che scommette, di nuovo, sull’attualità di un autentico “maestro”. La sua voce, quando ci si dispone in ascolto, continua a sprigionare il fascino vigoroso della risposta a una sete innervata nelle fibre dell’esperienza: Evergreen Claudel.

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