La comicità è una cosa seria, e va presa sul serio. Caso mai siamo noi che non dovremmo prenderci troppo sul serio. “Bravo, sette più” denuda la scuola imbolsita nei suoi cliché con l’acume sintetico di un Baumann che conia la definizione di “società liquida”. E “va che qui siamo su a milletrè” dipinge la psicologia del villeggiante italiano medio-piccolo come non so se ci sarebbe riuscita una ricercona congiunta del Mit di Boston e della Fondazione Agnelli.  Se non ci credete, fatevi un giro nei backstage degli spettacoli in radio e alla tv di Cochi e Renato (ma anche sui palchi) e poi lungo i successivi percorsi teatrali del primo e cinematografici del secondo a coppia divisa. Ma fatevi anche un giro nella Milano tra le macerie e il boom, tra periferie dove la gente non va in tassì, case di ringhiera, vecchie osterie e localini dove fermentava uno strano melting pot di artisti, scrittori, ligéra, mezzi delinquenti, nottambuli vari, partigiani che non avevano dismesso la voglia di resistenza. E chitarre, e strumenti vari. E giovani che non gli andava di mettersi a nanna dopo Carosello per finire a fare il ragioniere in banca, e che lì trovavano chi li ascoltasse suonare, cantare canzoni popolari, ma anche il jazz o il rock,  o contar su cose da ridere.  Per mille lire a sera, se andava bene. 



Non c’era lo star system che ti aveva già programmato la carriera come nei talent show di adesso. E se ci fosse stato, si sarebbe beccato un “mi piacerebbe cantare una canzone intelligente… questo cantante è proprio un deficiente”. Nessuno ti apriva comode autostrade; senza la gavetta e lo strano melting pot non ci sarebbe stato il cabaret. Il nostro cabaret. Esso è la sintesi della milanesità, la sua autocoscienza critica. Di francese esso ha solo il nome, che peraltro noialtri del melting pot meneghino storpiamo volentieri in gabaré, che ci siano dentro gli sketch o i pasticcini, indifferentemente. Il nostro barbone, poi, è una presenza carnale, il clochard è una visione romantica, l’immagine prodotta da un’ambizione intellettuale esistenzialista.  Non farà mai il bagno nella Senna: la quale infatti non è l’Idroscalo. Perché –  non ci menino per il naso – un conto è essere, un conto atteggiarsi.



Per farci i giri appena suggeriti abbiamo una guida d’eccezione, anzi due: Andrea Ciaffaroni per set, palchi e backstage del successo di Cochi e Renato, e Sandro Paté per il melting pot meneghino che per loro è stato come il brodo di coltura. Il libro che i due hanno prodotto sulla coppia è meglio del tom-tom per il nostro viaggio della conoscenza tra il lago Maggiore e i Navigli; quanto all’audio non c’è la voce meccanica di Google ma una polifonia di voci umane, testimoni del tempo, dei luoghi e delle esperienze di Aurelio Ponzoni e Renato Pozzetto. Morale: la gallina non è un animale intelligente, ma la biografia di Ciaffaroni e Paté sì, è proprio una biografia intelligente. Non ci credete? Andate in libreria e comprate:  A. Ciaffaroni, Sandro Paté, Cochi e Renato. La biografia intelligente, Sagoma Editore 2019.



Il libro è frutto di un incontro-scontro – è lo stesso Paté a sottolinearlo – fra due autori con penna e metodo alquanto diversi. Il primo confeziona una biografia a più voci attraverso una quantità di interviste di testimoni che rivelano un mondo. L’altro realizza la seconda parte, una ricognizione completa e accurata del percorso professionale a partire dagli esordi della coppia in tv nel 1968, al successo di Canzonissima, alle successive carriere “separate”, fatte di impegni specialmente cinematografici di Pozzetto e prevalentemente teatrali di Ponzoni, alla ricomposizione della coppia negli anni 2000 e fino ad oggi. Lavorando soprattutto negli archivi.

Sandro, perché una biografia a più voci? “Ho voluto ascoltare persone – spiega Paté – in grado di portare una testimonianza diretta, persone che erano presenti, che hanno vissuto in stretto contatto e negli stessi ambienti all’epoca dei fatti raccontati. È una scelta, ma anche una necessità per quanto riguarda i primi anni di esperienza artistica di Cochi e Renato, quando “non erano nessuno”, come molti altri loro amici, cabarettisti ma anche pittori come Piero Manzoni o Lucio Fontana, e la stampa non si occupava di loro. Non è possibile basarsi sui documenti, salvo qualche scarno trafiletto su La Notte o Il Corriere d’Informazione, i due quotidiani milanesi del pomeriggio. Non c’erano i social. Ho voluto ricreare momenti che altrimenti andrebbero perduti”.

La coppia dei due tra i più geniali e creativi comici italiani prende le mosse dalla guerra e dall’amicizia: che nasce da bambini tra Laveno e Gemonio dove le famiglie sono entrambe sfollate; prosegue nella Milano del dopoguerra alla periferia sud tra il Corvetto e la “Baia del Re” (Renato)  e Via Foppa-Via Stendhal, zona Piazza Napoli (Cochi). Cosa succede a scuola lo racconta Enrico Beruschi, che nelle superiori, al Cattaneo, era compagno di Cochi (con il quale faceva l’aereo in classe, tra goliardia e proto-cabaret) e alle medie di Via Tabacchi era stato in classe con un discolo Renato. Anni 50, Milano dei tram e della case di ringhiera, delle fabbriche al nord e delle case popolari e attorno ancora prati e cascine, Milano del lavoro, della piccola delinquenza, della strada e dei cortili; Milano del gioco e dell’ironia. Una Milano che ha anche voglia di inventare, di rompere gli schemi, di incontrarsi. I luoghi erano osterie, gallerie d’arte, scantinati, circoli, bocciofile. Milano dove si documenta che “la vita è l’arte dell’incontro”, titolo peraltro di un long playing  del 1969 di canzoni e poesie di Vinicio de Moraes, Sergio Endrigo e Giuseppe Ungaretti (già tre nomi così messi insieme la dicono lunga).

Paté ci conduce all’Osteria dell’Oca d’Oro di Via Lentasio, al Cab 64 di via Santa Sofia, al Santa Tecla in Duomo. Incontri, incontri, incontri. Con il maestro Gino Negri che gli dà il primo ingaggio per cantare in circoli anarchici. Risultato: “Va’ quei duu pirla lì”. Pomeriggi al Motta a cantare con i bambini. A Brera con frammisti nel pubblico di avventori fotografi emergenti come Uliano Lucas e scrittori come Bianciardi, Eco e Simonetta. Poi gli incontri con Jannacci e Gaber. E Dario Fo. Ma prima con Tinin e Velia Mantegazza, quelli del Club 64, intellettuali che avevano una galleria d’arte dove succedeva che Cochi e Renato divertissero Lucio Fontana (quello dei tagli nella tela), o Piero Manzoni (quello della merda d’artista in barattolo; “Manzotin” la definì subito Pozzetto, con una crasi concettuale tra la carne in scatola omonima e il cognome, Manzoni, dell’autore) e facessero amicizia con loro. Sintetizza Nanda Vigo, classe 1936, designer di grido, da sempre vicina a grandi artisti: “Cochi e Renato erano due ragazzi che facevano parte della nostra compagnia. Frequentavamo gli stessi locali, eravamo poveri alla stessa maniera”. E poi cala il carico: “Fu naturale fare il cabaret milanese nei territori dell’estetica invece che in quelli dello spettacolo”.

“Sandro – chiedo ancora  – su che basi avvenne questa connessione tra arte e cabaret, che cosa ha potuto unire comici e pittori? “Il fatto di essere fuori. Negli anni tra la fine dei Cinquanta e soprattutto i Sessanta, con l’incipiente boom economico, si affermavano gli ideali del fare soldi e carriera, e non era poi così difficile raggiungerli per chi voleva stare dentro quel trend. Questi nostri personaggi no. Erano fuori”.

Uno degli intervistati del libro, il giornalista sportivo e scrittore, Giorgio Teruzzi, afferma che “c’era sotto, secondo me, l’implicito accordo di dare accesso al bello a tutta la società”. Per questo Milano fu capitale del design. E continua: “Cochi e Renato hanno beneficiato dello spirito dell’epoca, che si alimentava dello stare insieme”.

Grandi maestri e una grande compagnia, no? Chiedo ancora a Paté. “Maestro e apripista è stato soprattutto Jannacci. Cochi e Renato si sono sempre scherniti quando capitava che li nominassero come un trio di pari, “Ponzoni, Pozzetto e Jannacci”: “Eh no, lui è un’altra cosa, lui è un poeta”.

Bruno Lauzi, Cochi e Renato, Lino Toffolo, Felice Andreasi… il Gruppo Motore del Derby, famoso locale milanese, all’epoca della direzione artistica di Jannacci. Si sono sempre presentati insieme, come gruppo. Una combriccola, che poi si è allargata ai Boldi, Teocoli, Abatantuono e altri ancora. È troppo usare la parola amicizia? “Direi di no. L’amicizia non è mai venuta meno, ed era un’amicizia all’insegna della gratuità. Quando Cochi e Renato hanno cominciato a girare film, Jannacci li aiutava per esempio leggendo e valutando i copioni che venivano loro proposti e consigliando se accettare o meno. Quando Pozzetto finì di girare “Per amare Ofelia”, Jannacci e i suoi amici, primo fra tutti Beppe Viola, giornalista sportivo a coautore di testi con Enzo, si trasferirono a Roma per seguire il montaggio e suggerire modifiche e accorgimenti perché il prodotto finale fosse adeguato, cioè non tradisse lo spirito della loro comicità”.

Una comicità inedita, strabiliante, che lasciò allibiti funzionari Rai e giornalisti delle pagine di spettacolo. Poi fece breccia. Si parlò di comicità surreale. In effetti era spiazzante perché fatta di (apparenti) non-sense. In verità le radici erano ben piantate nella realtà popolare, nelle sue esperienze, nei suoi spaesamenti e nella sua spregiudicatezza. Il prodotto comico risulta una inedita critica – garbata, mai volgare, esilarante e acuta –  alle convenzioni borghesi e alle goffaggini dell’italiano del boom economico e dei successivi anni di quel processo che Pasolini definì di omologazione culturale e di mutazione antropologica. Citazione tosta, eh? Ma vi avevo avvertito subito che la comicità di Cochi e Renato è una cosa seria. Taac!