La fuga da una società disumana passivamente succube di un potere pervasivo e soffocante. È questo il tema dell’avventuroso romanzo di Giovanni Zola Come formiche dall’alto (Cantagalli, 2024). L’intrepida impresa coinvolge tre protagonisti decisi a spezzare le catene di una schiavitù opprimente in una società dove l’individuo è assoggettato a un sistema totalitario e alienante, sottomesso a un controllo tentacolare, intransigente e persecutorio, garantito da congegni tecnologicamente avanzati e dall’intelligenza artificiale.



Il primo taglio da quel mondo, divenuto insopportabile, impone ai tre fuggitivi di scomparire dallo sguardo del “Grande Fratello”: la distruzione dell’Olophone (una sorta di cellulare che intercetta senza pause anche la vita privata) non richiede particolare audacia, solo un certo accanimento per disintegrare il dispositivo sotto i colpi di pesanti pietre. Mentre decisamente più impegnativo e doloroso, anche se indispensabile per oscurare definitivamente le loro tracce, si rivelerà l’urgenza di affondare la lama di un coltello nella coscia di ognuno per estrarre il microchip inserito nei loro corpi fin dalla nascita per sorvegliarne ogni agire, persino il battito cardiaco, con infallibile capillarità.



Il viaggio dal Colorado ai confini del Centro America, avvertito fin dalle prime mosse come una sfida ad alto rischio, prosegue tra insidie impreviste e terrorizzanti emergenze affrontate insieme con temeraria tenacia, a volte evitando per un soffio la tragedia. La conquista della libertà che spesso appariva come un sogno proibito, contrastato da continue disavventure, continuava tuttavia a sostenere l’impeto e l’aspirazione a raggiungere la “terra promessa”, di poter approdare a una vita diversa da quella imposta da un potere disumano, senza volto, totalmente alieno, che minacciava di annientarli spegnendo ogni attesa e ogni domanda che ancora vibrava nel loro cuore. Tante erano le contraddizioni già sopportate seguendo con inerzia l’atteggiamento prevalente nella società, per lo più irretita in un’assuefazione acritica e indolore, rassegnata.



Per Jordan, Dakota e Indy, sua sorella gemella, era ormai chiaro che il mondo era cambiato in peggio: era, la loro, la prima generazione senza una famiglia, dato che erano stati prodotti in laboratorio tramite lo sviluppo di cellule staminali embrionali umane evitando l’utilizzo di ovuli e spermatozoi. Definiti dalla scienza “embrioni sintetici” e cresciuti all’interno di uteri artificiali, privi di qualsiasi origine e ritenuti proprietà esclusiva del compratore, rappresentavano l’ultimo traguardo delle tecniche riproduttive superando l’obsoleto ricorso all’utero in affitto.

È questo uno spaccato decisivo del romanzo distopico nel quale i tre protagonisti avvertono, rovistando nel loro disagio esistenziale, la percezione di un inganno, di un tradimento della loro umanità sempre più imbevuta di menzogna. L’insoddisfazione e l’inquietudine diventano motivo di ricerca, di interrogativi sul mondo intrappolato in una gabbia dove gli esseri umani sono diventati oggetti all’interno di una visione pianificata che non ammette l’unicità di ogni creatura, dotata di pensiero, di libertà, di aneliti debordanti da ogni programmazione.

Lungo il viaggio, carico di imprevisti e suggestioni inattese, di incontri e storie che risvegliano aspirazioni assopite, il potere tirannico e omologante che pretende di cancellare l’impronta divina dalla creazione appare ai loro occhi in tutta la sua disastrosa e assurda tragicità. Affiora nei dialoghi un dissenso lucido su tante contraddizioni esasperanti e assurde sulle quali la loro esistenza era fino ad allora scivolata quasi priva di ribellione. L’alienazione del mondo in cui erano cresciuti balena nella loro mente provocando un urto, un dissenso: la cancellazione del passato, per cui evocare ricordi era proibito, è avvertita con amarezza, come assolutamente intollerabile appare il fatto che chi dissente dalle teorie ufficiali circa il cambiamento climatico possa venire accusato di “reato di opinione” e destinato all’internamento in istituti psichiatrici, o altrettanto inconcepibile risulta la convinzione che, in base al principio che qualsiasi essere vivente non umano sia innocente e privo di malvagità, l’uccisione di un animale sia considerato un delitto più grave dell’uccisione di un uomo.

Eppure spezzare l’omologazione, sottraendosi ai diktat del pensiero unico, non è affatto facile: espone all’emarginazione, alla solitudine e persino al rischio di una sconfitta umiliante e rovinosa.

Il vero tema del romanzo è la libertà, sempre affascinante e desiderabile, ma allo stesso tempo facilmente equivocabile, quasi proibitiva, inarrivabile e sfuggente nella sua esuberante e incalcolabile pretesa. La sfida della libertà è netta come una lama tagliente: di fronte ai rischi elevati e prefigurabili, Dakota decide di arretrare, di rinunciare al sogno che considera irrealizzabile e troppo pericoloso:

“Ti giuro Jordan… ti avrei seguito ovunque, ma è passato troppo tempo, sono successe cose che non avevamo previsto. È andata così. Ora non voglio rischiare la vita di Indy e neanche la mia!… Che ti piaccia o no questo è il mondo in cui viviamo, sono stanco di scappare, arriva un momento in cui bisogna arrendersi per sopravvivere” provò a spiegare Dakota. “Io non voglio sopravvivere, io voglio vivere!” le replica Jordan che poco dopo, quando sarebbe stato chiaro che le loro strade si sarebbero divise, aggiunge: “Se un giorno ti facessi una domanda, una sola domanda, non chiederti per che cosa vale la pena vivere, chiediti per che cosa vale la pena morire”.

Evitando di svelare i passaggi più avvincenti della fuga ininterrotta che spesso apre occasioni di intensa riflessione sulla vita, sulla società, sul senso di ogni contingenza umana, nel racconto traspare l’intensità di legami affettivi riscoperti attraverso la testimonianza di chi già sperimenta sentimenti di autentica amicizia e di amore vissuti in una dimensione profondamente umana, oltre convenzioni sociali e schemi ideologici.

Lo stesso titolo del libro trae spunto da un momento idilliaco, l’abbraccio fra Jordan e Indy che si scoprono innamorati l’uno dell’altra, mentre sotto un immenso cielo stellato “stettero in silenzio di fronte a quella meraviglia eterna che li faceva sentire guardati come formiche dall’alto”.

Il fascino della narrazione promana dal rivelarsi di una libertà che pesca il suo slancio in un’origine incontaminata dal calcolo, attinente alla verità profonda della vita che è un dono misterioso che, pur attraverso limiti e travagli, non tradisce la promessa del suo compimento.

Nella trama fitta di provocazioni e di contrastanti suggestioni, il carattere distopico della narrazione in vari tratti si avvicina ad atmosfere non del tutto proiettate in un futuro distante e totalmente utopico: varie situazioni, per quanto estremizzate, riflettono infatti un clima culturale attinente ai nostri giorni, già intrisi di tendenze della stessa matrice. Il messaggio che si coglie suona come un invito ad aprire gli occhi.

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