Negli ultimi decenni è cresciuto molto l’interesse verso l’esperienza del tradurre. E sono cambiate le categorie usate tradizionalmente per descrivere la traduzione letteraria e il traduttore, che non è più considerato un inappariscente addetto alla riformulazione di testi da una lingua all’altra. Un traduttore è riconosciuto come un attore della creazione di beni culturali. E per tradurre è intesa un’esperienza conoscitiva della lingua e dei testi.



Vi è, peraltro, un’attività traduttiva che ci accompagna durante tutta la nostra esistenza: traduciamo pensieri in parole e miriamo a farci capire, anche da chi è forse abituato a esprimersi in altro modo, pur nella stessa (?) lingua, e per questo fatica a cogliere l’uso che delle parole facciamo noi. Del resto, ogni testo è ancorato al soggetto che lo ha creato: egli imprime una piega imprevedibile e originale alle parole che una lingua rende disponibili per la comunicazione. Comprendere un testo passa per l’esperienza dell’alterità. Si conosce andando incontro a ciò che è diverso. Ancor più impegnativo è il cammino quando un testo è riproposto in un’altra lingua. Più che trasferire un senso dalle forme di una lingua a quelle di un’altra, un traduttore “attraversa” il testo, ne fa esperienza, e lo scrive come nuovo autore, che si avvale delle categorie di un’altra lingua.



Queste riflessioni sono esposte in modo limpido e documentato in un’opera, appena uscita, di Stefano Arduini, autorevole studioso di linguistica cognitiva e di traduzione. Con gli occhi dell’altro. Tradurre (Jaca Book, 2020) è il titolo di questo contributo, che offre un punto di vista originale, elaborato nel confronto critico con i Translation Studies. Di questi, Arduini critica una certa torsione ideologica, che riduce le culture e le identità a costrutti sociali (la riduzione di ogni valore – compresa la vita umana – a costrutto sociale è peraltro nello Zeitgeist).

Nella sua riflessione, egli muove proprio da una teoria del confine e dell’alterità culturale e linguistica, che tuttavia non vede come fattori ostili alla comunicazione, ma come occasioni per un incontro e un dialogo rispettoso della differenza. Peraltro, un’analisi avveduta riconosce la complessità del contenuto di parole come altro e confine. A ben vedere, tali voci presentano, in italiano, un punto di vista che merita approfondimenti, mediante analisi comparative delle parole che, in altre lingue, soprattutto in quelle classiche, servono per manifestare concetti simili, ma caratterizzati da profili a volta a volta diversi.



La critica sottile dello studioso comporta un invito a riconoscere che diverse nozioni impiegate in tanta ricerca contemporanea sono anguste, forse perché agli studiosi manca un respiro interlinguistico autentico, capace di recuperare una pluralità di punti di vista che è costitutiva della tradizione radicata nel mondo classico – quella tradizione che menti ideologizzate dell’invecchiato Nuovo Mondo non riescono più a comprendere (anche perché vi è paura a comprendere, a incontrare, a riconoscere l’altro…).

Ed ecco che l’indagine si arricchisce di una documentata analisi del profilo etimologico di parole cruciali, come limen, limes, finis, margo, ciascuna delle quali offre una lettura peculiare dell’alterità e del confine. Arduini invita ad affinare lo sguardo e a riconoscere che, nel passaggio traduttivo, insieme alle parole cambiano le chiavi di lettura e il testo tradotto reinventa una tradizione. Così, il dialogo tra culture è la condizione per una rinnovata esperienza di comprensione dei testi. Gli incontri di lingue e di culture sono fattori di cambiamento di una tradizione, che si ripropone sempre nuova e più ricca. E questo avviene anche grazie al tradurre, che riconosce la diversità, la accetta e non la annulla, ma la accoglie e la ripropone.

Secondo un’autorevole tradizione, radicata nel testo humboldtiano, una lingua dà uno sguardo dinamico sulla realtà, e nel tradurre si pone il compito di andare oltre quel punto di vista, per esperirne un altro. L’atto del tradurre riconosce la diversità, il confine linguistico e culturale, e raccoglie la sfida di comunicare attraverso l’esperienza dell’alterità: non vi sono mondi chiusi al dialogo, ma vi sono tradizioni costruite attraverso la condivisione nel rispetto delle diversità. L’altro è gast, è ospite, non è hostis, non è ostile. La radice indeuropea è condivisa da queste parole, che hanno scelto percorsi differenti.

La traduzione si colloca nella dimensione dell’ospitalità, dell’apertura e della fiducia, che ha base ragionevole nella condivisione dell’esperienza umana del linguaggio – un’esperienza comune, che tuttavia si compie e si manifesta nella differenza. Le lingue danno forma a culture differenti, e una cultura è simbolo di identità. Negare le differenze linguistiche e culturali è rinunciare a fare esperienza della comunicazione, che avviene nel riconoscimento della differenza e nell’incontro dei diversi che restano tali. La traduzione non annette la diversità, ma la comprende e la rielabora, traendone spunti per rileggere la realtà in prospettiva sempre nuova.

Nella storia delle comunità umane, le lingue sono state elaborate, arricchite nel lessico e nella griglia interpretativa del mondo, e in tale impresa i traduttori hanno agito in modo sapiente, innovando la lingua e rinnovando i testi. Condizione naturale per una comunità linguistica bisognosa di crescere culturalmente è l’incontro con altre comunità – e i traduttori attestano che nessuna lingua è senza contatti con le altre. La traduzione accoglie senza omologare.

Anche chi traduca un testo pur orientato a un annuncio di validità universale, come le Sacre Scritture, deve fare l’esperienza della diversità. Si consideri soltanto come sia difficile tradurre l’idea di “bene”, “buono” e “bontà” in una lingua che sia priva di parole corrispondenti. Nel kalaallisut (lingua degli Inuit della Groenlandia) vi è solo un’espressione ajortoq che significa, all’incirca, “cattivo”. Un modo per rendere approssimativamente l’idea di “buono” è negare “cattivo”: ed ecco la forma ajunngitsoq che vale, all’incirca, “non cattivo” quindi “buono”.

Così, è possibile tradurre il passo di Genesi 1,4 et vidit Deus lucem quod esset bona. Nella versione della Bibbia in kalaallisut si trova: Guutip takuaa qaamasoq ajunngitsuusoq (“Dio vide la luce che non era cattiva”). Ma il testo non va letto con le “lenti” dell’italiano: si rischierebbe di intendervi una litote (“non male, la luce”). Il kalaallisut, peraltro, ha difficoltà anche con l’idea di “sapere”: ha una forma verbale come naluara, che vale “ignoro”, ma non ha negazione: è una forma semplice; invece, per l’idea di “sapere” si deve negare naluara, come in nalunngilara “non ignoro”, cioè “so”. Con strutture simili, è impegnativo rendere testi che trattino del “sapere” e della “scienza” (che corrisponde a “non ignoranza”).

Nel volume di Arduini, vi è una serie di studi puntuali, dedicati ai concetti di “parola”, “io sono”, “verità”, “inganno”, “amore”, “bellezza”. Queste ricerche sono condotte sulla base di un’ipotesi, orientata verso la linguistica cognitiva: per essa, i concetti non sono considerati entità rigide; piuttosto, ad essi è attribuita una struttura dinamica, e la traduzione contribuisce a tale dinamicità, facendo sì che essi vengano “ridefiniti nell’incontro con altre lingue e tradizioni”. E nel corso del tempo, di traduzione in traduzione, è possibile cogliere “una sorta di deriva dei concetti che li porta anche molto lontano dai valori d’origine. Dunque non possiamo riferirci ad astrazioni come ‘verità’, ‘bellezza’, ‘amore’ come se fossero costanti nel tempo. Concetti di questo genere sono piuttosto sottoposti a un continuo lavoro di ridefinizione dei propri significati che costituisce il movimento delle idee” (p. 149). Questo passo è una sintesi efficace del quadro teorico di quest’opera, che merita una lettura attenta e meditata, anche per i numerosi spunti critici sui destini del sapere letterario nell’epoca contemporanea.