Perché il confine italo-svizzero sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai le nostre frontiere con Francia e Slovenia sono situate a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest?
In un’epoca di sovranismi, i confini tornano d’attualità. Erano spariti con l’Europa unita e il trattato di Schengen: dopo il Duemila niente più dogane, documenti, file d’auto ai valichi. Ma sono riapparsi con il coronavirus e i controlli sui migranti. Così abbiamo dovuto riscoprire i limiti terrestri della nostra penisola. Che coincidono con le Alpi, ci hanno insegnato. Ma non sempre.
Sono molti infatti gli spartiacque non rispettati: la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio. E in Lombardia una valle (la Val di Lei, dietro Madesimo) non appartiene al bacino del Po, ma a quello del Reno.
Anche le frontiere linguistiche, oltre a quelle geografiche, sono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, inglobiamo centomila sloveni fra Cividale e Trieste. E oltre confine 350mila svizzeri ticinesi conservano la madrelingua italiana dopo la separazione del 1515.
Sapevate che l’attuale frontiera di Ventimiglia fu decisa da un prefetto napoleonico nel 1808? O che la sventurata Gorizia, record mondiale, ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947?
Il mio libro Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere (Neri Pozza, 2021) traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto: il generale francese Charles De Gaulle, per esempio, nel 1945 voleva annettere l’intera Val d’Aosta. Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani.
Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini dei nostri confini: dal Frejus alla val d’Ossola, dalla Valtellina al Brennero, da Cortina al Carso. Fra storia, geografia, cultura, politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.
Per questo ho scritto il libro. Perché in realtà non conosciamo affatto i nostri confini. Li attraversiamo senza accorgercene, e sappiamo poco o nulla di loro.
Ho scoperto, per esempio, che antichi e romani e longobardi non tracciavano mai i confini in cima ai valichi, ma molto più a valle. Dove le famose “chiuse” (Bard in Val d’Aosta, Klausen o Sabiona in Alto Adige, Chiusaforte in Friuli) permettevano di controllare il transito con poche decine di soldati. Nel 1800 Napoleone fu bloccato per mezzo mese dagli austropiemontesi a Bard.
Di frontiere oggi si parla soprattutto per i migranti. L’Austria ogni tanto ripristina i controlli al Brennero, la Francia è in allerta continua a Modane e Ventimiglia, Slovenia e Italia hanno istituito pattuglie miste per sorvegliare. Ma per un figlio di profughi come me (mio padre scappò nel 1944 dall’isola di Lussino, oggi in Croazia) i confini rappresentano soprattutto un incubo, fortunatamente sparito col crollo dei due totalitarismi opposti ma specularmente simili: fascismo e comunismo.
Oggi grazie a Dio nessuno sano di mente rivendica più niente. Sono spariti i nazionalisti che per secoli hanno minacciato di invadere territori oltre confine, e lo hanno fatto. Ma fino al 1989 sulla frontiera di Gorizia (fotografata sulla copertina del libro) passava la Cortina di ferro, e per quasi mezzo secolo abbiamo rischiato la guerra atomica in Europa.
È incredibile pensare come la guerra sia diventata inimmaginabile per noi nel giro di pochi decenni. Una rivoluzione culturale unica nella storia dell’umanità. Si va dal Friuli alla Croazia così come dalle Marche all’Abruzzo, sovrappensiero, senza ricordare le centinaia di migliaia di soldati morti inutilmente da quelle parti nel secolo scorso. Ma ancor oggi ucraini e russi si ammazzano per i loro confini. E sono passati solo vent’anni dalla guerra in Kosovo: i nostri soldati sono sempre lì, a guardia di frontiere contestate e famiglie minacciate.
È importante, quindi, conoscere i nostri confini. Attraverso di essi possiamo capire l’Italia, e quindi noi stessi.
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