Domenica 3 novembre si è conclusa la terza edizione di Corpi di/versi. Qualcosa di più che un semplice concorso di poesia. Quella mattina io e il poeta Sebastiano Aglieco aspettavamo preoccupati il nostro turno: si è mai visto che uno scrittore presenti il suo ultimo romanzo sopra una pedana trasformata in un ring di pugilato? Si è mai visto che indossi e incroci i guantoni con il critico che dovrebbe raccontare meraviglie del suo libro e che invece qui si mette in guardia e colpisce con destri e sinistri il malcapitato scrittore? Che presentazione di un libro sarà mai, ci chiedevamo.



Ma la preoccupazione non è durata molto. Davanti a noi e al numeroso pubblico presente, gli amici dell’Anffas di Jesi e Macerata, nella cui sede ci trovavamo, hanno chiamato i ragazzi di Anffas Pisa, de Il ciclamino di Corridonia, del Centro Francesca di Urbino e della stessa Anffas di Macerata. Dovevano leggere i testi che avevano inviato al concorso e che erano stati selezionati, insieme a quelli inediti dei quattro poeti Antonio Alleva, Nicola Fasolino, Lina Salvi e Barbara Marasca. Mentre i loro accompagnatori spiegavano al pubblico – tra cui molti dei loro compagni e amici disabili o con disturbi mentali, in trepidazione sulle loro sedie a rotelle, o abbracciati ai loro educatori – le modalità con cui avevano coinvolto e guidato i ragazzi al lavoro sui testi, loro stavano davanti al microfono. Chi preoccupato di non riuscire a leggere, chi di non riuscire a vincere l’emozione, o di non riuscire a restare fermo con braccia e mani, o di non riuscire a finire le parole. Di non riuscire, insomma. Perché in fondo questo è il marchio a fuoco che si portano addosso: non riusciti. Ma quando uno di loro ha cominciato a leggere quello che aveva scritto, a me e al poeta Aglieco tutta la sciocca preoccupazione per la nostra presentazione si è sciolta via. L’ho visto asciugarsi la faccia come stavo facendo io: Corpi di/versi era lì ed era vivo, mica un concorso di poesia come gli altri. E questo ormai lo sapevamo.



Qualcun altro forse racconterà lo sviluppo di quelle giornate intense, degli incontri e dei libri, delle mostre e dei dibattiti. A noi, in quell’attimo in cui il ragazzo leggeva di un’esistenza difficile, quasi di una morte che però si “consegnava alla vita con dentro un cuore immenso anche più del silente sole”, non ci importava più niente della letteratura. Eppure mi è venuto in mente Piero Jahier e la sua poesia: “E nuotando nella luce, negli specchi e sorrisi./ dell’accoglienza cordiale,/ mi son trovato a parlare delle sole cose care,/ a spiegare e difendere la causa della mia vita./ Ma ho visto – a tempo – il respiro della/ mia passione,/ congelarsi contro i vostri visi./ A tempo mi avete guardato/ come un drago che butta fuoco./ Mi domando perché mi avete invitato:/ ma se è perché ho scritto tre parole sincere/ e vorreste il segreto di questo mestiere:/ Ci son sette porte e ho perso la chiave/ per poterci tornare./ Se le ho dette, vuol dire che avran traboccato,/ alzatevi presto e vedete partire la lodola/ quando il sole ha chiamato”.



Quel ragazzo lì e gli altri come lui che hanno letto dopo di lui, avevano un segreto da consegnarci: tre parole sincere dette perché avevano traboccato. L’orgoglio di essere lì, la forza e la certezza di non essere non riusciti, aveva la stessa intensità dell’invito di Jahier: smettete di dormire, alzatevi presto, vivete per davvero, fate come l’allodola che saluta l’alba quando il sole la chiama. Quei corpi che si offrivano dentro la parola nella loro sofferenza avevano quella stessa luce dentro. Era quella luce che a me e ad Aglieco ha fatto scendere lacrime. E ci ha resi più leggeri mentre, come due vecchi pugili suonati, divertiti come bambini, fingevamo di darcele sul quadrato improvvisato per noi. Rispondere ai suoi colpi, alle sue domande, e raccontare il mio libro non è mai stato così straordinariamente lontano dalla letteratura. E non è stato mai così straordinariamente attaccato alla vita, al suo dolore e alla sua luce. Alla sua poesia.

Corpi di/versi è anche un concorso di poesia. Ma il premio in realtà non c’è. O meglio: è questo. Per i poeti che vengono selezionati, o per chi viene invitato come me, il premio è essere lì. Accolti dentro una realtà a cui la parola poetica, umile e traboccante, può solo obbedire.

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