Una silenziosa e tenace speranza attraversa il terzo libro (Il passo dell’obbedienza, Moretti&Vitali 2020) di Laura Corraducci, pubblicato nella collana “Fabula” e con una postfazione di Marco Vitale: “c’è il volare sicuro degli uccelli / nel lento ammainarsi di una vela / e la sacra certezza della donna / che obbediente si china alla notte” (p. 28).



Stupisce, fin dalla coraggiosa scelta del titolo, la centralità di una parola che nell’immaginario contemporaneo è spesso ridotta al significato deteriore di servilismo o rassegnato dovere, contrapposta ad una libertà svincolata da tutto. Ma nelle sofferenti e luminose figure che percorrono questo libro, da Maria “Stella Maris” alla regina castigliana Giovanna la Pazza o alla straordinaria esperienza della scrittrice ebrea Etty Hillesum nel buio inferno di Auschwitz, il cammino dell’obbedienza viene invece a coincidere con la libertà di chi, di fronte all’angoscia e al mistero del male, ha saputo offrire al mondo l’umile testimonianza del proprio amore: “e forse fu allora che imparasti che il silenzio / è sempre la parola più potente dell’amore” (p. 75). 



Obbedienza nel recupero dell’originaria forza semantica del termine per cui sappiamo, dall’etimologia latina, che ob-audio equivale ad una disposizione all’ascolto dell’esistente, della realtà che si offre davanti al nostro sguardo: “stamattina entro ancora di nascosto / per togliere via la sabbia dai vetri / e girare nella stanza solo con la voce / tocco i libri gli occhiali e il caldo del grecale / il nero del caffè dentro la tazza / sento il sole che qui pare più orgoglioso / di accenderti lo sguardo sopra il tetto / queste assurde maglie di una rete / che stringe nel vuoto il nostro tempo” (p. 68).



Così la poesia della Corraducci, “canto rotto” alla ricerca di un compimento, si muove in questo tempo tra cronaca, storia privata e profezia, alla ricerca di un luogo silenzioso che possa offrire riparo dalla violenza del mondo: “e oggi che ho davanti il tuo volto / il mio passo non sa che fermarsi / dentro i tuoi occhi in questa casa / sospesa fra il verde e l’azzurro / dove i gesti sanno di buono e di antico” (p. 16). Nel viaggio poetico dell’autrice, che attraverso i grandi scenari drammatici del Novecento ci conduce a toccare luoghi e vicende familiari (la memoria di un nonno partigiano, la città natale di Pesaro con la sua storia, gli amati paesaggi delle Highlands) non potevano mancare richiami alla dimensione marina e adriatica, inevitabili per chi nasce su quella costa dove “a novembre in città a volte c’è il sole” e “il mare profuma come in estate” (p. 41).

Le vele, a cui è dedicata un’intera sezione del libro, diventano perciò emblemi di libertà e rinascita, con la loro resistente leggerezza insegnano a chi si mette in viaggio la legge dell’obbedienza al vento, ci guidano veloci nel mare dell’essere “imparando che la porta della morte / si attraversa soltanto con le vele” (p. 27). Il cuore si prepara per il grande viaggio, si fa vela anch’esso, impara dal mare la disciplina della pazienza e della libertà. Tutto è pronto e chiede una nuova metamorfosi: “rinascerò anch’io sotto forma di vela / accesa e fertile nei giorni di vento / in attesa di mani nelle sere d’inverno / piatta arrotolata alle corde di un legno / paziente e sottratta al culto d’amore / una coperta di aria e di pioggia” (p. 24).