Se le si osserva da vicino, vita e letteratura appaiono quasi gemelle. Sono, nella loro essenza più profonda, un grande, infinito, variopinto mosaico di storie. Tracciano strade e confini ai loro personaggi, stravolgono tempi e spazi con naturale semplicità, si incuneano lungo i percorsi più arditi ed impervi con la certezza più o meno fondata di riuscire, in qualche modo, a risalire comunque la china. Eppure qualcosa di impercettibile continua a separarle. A renderle, in certi casi, l’una alternativa all’altra. È la percezione che la pagina, per quanto cristallizzata nell’eternità, sia comunque una parentesi dell’anima. Un divertissement che esaurisce la sua forza propulsiva nel momento stesso in cui viene abbandonata per approdare a quella contigua. Un istante di meraviglia esaltato e limitato dalla sua stessa conformazione fisica e concettuale. Sembra quasi che la letteratura possa emulare la vita soltanto per un tratto della sua esistenza: quello in cui la lettura le conferisce consistenza, in cui l’inchiostro ha la forza di moltiplicare i suoi segni capitolo dopo capitolo. Ma poi, inevitabilmente, comincia il silenzio. La fine impone il suo dominio. E mentre l’intreccio tenta di riavvolgere sé stesso, la vita è già andata oltre. Di appena un passo, certo. Ma tanto basta per renderla irraggiungibile dalla sua amata controparte.
Qualcuno, tuttavia, di piegarsi a queste legge universale non scritta non ne volle sapere. E un giorno, negli anni 60 del secolo scorso, trovò il modo di compiere quel passo mancante. Quel qualcuno si chiamava Julio Cortázar, lo scrittore, poeta e drammaturgo che Neruda e Borges collocarono sin dai suoi esordi nell’olimpo letterario del Novecento. “Un racconto è una struttura – scrive in una lettera all’amico Jean Barnabé, autore argentino – ma ora ho bisogno di destrutturarmi per tentare di raggiungere, non so come, una un’altra struttura più reale e veritiera. Un racconto è un sistema chiuso e perfetto, un serpente che si morde la coda; e io voglio farla finita con i sistemi e i meccanismi di precisione per riuscire a addentrarmi nel laboratorio centrale e lavorare, se ne ho la forza, sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema”.
È esattamente da questa premessa che, nel 1963, nacque quell’inclassificabile esperienza letteraria che fu Rayuela, conosciuta in Italia come Il gioco del mondo. La rayuela, in Sudamerica, corrisponde grossomodo al nostro gioco della campana: ci sono le caselle disegnate alla bell’e meglio dall’entusiasmo dei bambini, il salto ad una o a due gambe, l’estremo di partenza e quello di arrivo che, poeticamente, vengono chiamati Terra e Cielo. E, soprattutto, ogni partita porta con sé un diverso percorso di completamento. Una perfetta, straordinaria metafora della vita, sospesa quasi pascalianamente tra l’altitudine e il precipizio.
Su questa intuizione Cortázar costruì la sua inimitabile opera. Che fin dalle primissime battute, quasi a voler istituire un manuale delle istruzioni tutt’altro che invadente e pressante, fornisce al lettore la possibilità di seguire la storia nell’ordine che più gli aggrada. Apprendiamo così che la storia di Horacio Oliveira, studente argentino diviso geograficamente e spiritualmente tra il richiamo della Parigi del jazz e la soffusa sensualità del barrio di casa, tra l’amore per la conturbante figura della Maga e il sentimento per Talita, è un insieme di frammenti cangianti. Possiamo leggerli affidandoci al classico ordine numerico, confidando nell’abitudine della successione; oppure possiamo seguire la traccia suggeritaci dal romanziere, in cui le pagine e gli eventi si alternano in maniera inedita. Possiamo perfino sottrarci a qualunque parvenza di canovaccio, gettarci nel vortice della scrittura, trovare o addirittura costruire connessioni mai esplorate. Per giungere ad un risultato decisamente inusuale: un romanzo diverso ogni volta, in cui lo svolgimento e l’esito sono ampiamente determinati dalle singole sensibilità di ogni fruitore.
È grazie a questo straordinario passaggio narratologico che la letteratura imparò a tornare su sé stessa senza perdere la sua capacità metamorfica. Come il gioco della campana, che ti costringe a percorrere andata e ritorno per uscirne vincitore. Come quel gioco difficilmente prevedibile, fatto di rettilinei ed inversioni, che è la vita. Allo stesso modo fa Horacio, seguito in maniera mirabilmente parallela dalle pagine di Cortázar: scatta in avanti, cede agli istinti e ai sentimenti; poi torna indietro, si raggomitola sui dubbi dell’inquietudine, si ritira nella malinconia del silenzio. Ama una donna, ma se la lascia sfuggire; ne incontra un’altra che sa di certezza, ma sovrappone alla sua immagine quella di ciò che ha perduto. E soffre, lasciando che gli altri soffrano. E canta, scrive, poeteggia lasciando che gli altri si facciano ammaliare. Cercando un senso di interezza che talvolta appare a portata di mano, ma che, per sua stessa natura, è più un processo che un risultato. Accettando la propria imperfezione non come una condanna, ma come una parte di sé.
Vita e letteratura, dunque. Unite da Cortázar, finalmente, in un sodalizio indissolubile e votato alla libertà. La libertà di percorrerle con o senza logica, con o senza piani, con o senza l’apporto dell’esperienza. E ritrovarsi sempre, contemporaneamente, soddisfatti di quanto ottenuto e rammaricati per ciò che manca. A coltivare il coraggio di saper ricominciare o di fronteggiare la fine. A guardare l’immagine speculare della Terra e del Cielo. Che spesso, come le pagine senza posto di Rayuela, si scambiano i ruoli. Come due gemelli, appunto.
“La rayuela si gioca con un ciottolo che va spinto con la punta della scarpa. Ingredienti: un marciapiede, un ciottolo, una scarpa, e un bel disegno col gesso, preferibilmente a colori. In alto sta il Cielo, in basso sta la Terra, è molto difficile arrivare con il ciottolo al cielo, quasi sempre si calcola male e il sasso esce dal disegno. Poco a poco, tuttavia, si acquista l’abilità necessaria per superare le diverse caselle. Un giorno si impara a uscire dalla Terra e a far salire il ciottolo fino al Cielo, fino a entrare nel Cielo, il brutto è che proprio a questo punto, quando quasi nessuno ha imparato a far salire il ciottolo fino al Cielo, finisce di colpo l’infanzia e si va a finire nei romanzi, nei problemi del cavolo, nelle speculazioni su un altro Cielo che bisogna imparare a raggiungere”.
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