Ce ne furono, nel famigerato ventennio, scrittori compromessi col regime. Autentici scrittori (non pennivendoli disposti a tutto pur di lucrare un quarto d’ora di visibilità); e sinceramente fascisti, anche se ciascuno a suo modo.
Ne parla ora uno studioso di sinistra, Antonio Di Grado, nel cospicuo volume Scrivere a destra. Vite narrate e vite perdute nel ventennio nero, uscito presso Giulio Perrone. Materia scabrosa, foriera di sconcerto e di scandalo? Ma forse non come un tempo. Forse sta maturando, riguardo ad argomenti del genere, un atteggiamento meno arcigno, senza rigidezze e slogan in rima: certi tabù si allentano e c’è maggiore disponibilità all’ascolto se sporge qualche voce fuori dal coro, da ogni coro, tentando una valutazione realmente critica. Come fa appunto Di Grado; o, con analoga libertà, Claudio Giunta, autore del vivace libello “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?” L’educazione, la scuola, l’Italia, appena pubblicato da Rizzoli. Giunta adotta un’impostazione prospettica, interrogandosi sul clima da costruire in una scuola che sempre meno può esimersi dall’educazione civica e sempre più, allora, deve affrontare questioni “calde” come la società moderna, la libertà d’espressione, il dettato costituzionale, l’antifascismo e il fascismo.
Da parte sua, Di Grado si impegna in un’accurata retrospezione storiografica. Il che non comporta affatto sospensione del giudizio sul presente e i suoi problemi, visto che fare i conti con una certa epoca comporta, in ogni caso, quella che una volta si definiva “scelta di campo”.
Non è comodamente super partes, Di Grado. E interviene risoluto sulla questione della “memoria divisa” che affliggerebbe ancora il nostro paese. Sì, “la Resistenza fu un elemento di rottura”; ma quella discontinuità resta base e alimento della Repubblica.
Di Grado, del resto, si spinge a sostenere che “non v’è nazione moderna che non sia nata da una guerra civile”. Nessun passo indietro, dunque, rispetto ai princìpi–cardine che animarono la guerra partigiana, nutrendo poi la Costituzione a tutt’oggi vigente. Eppure, la memoria divisa non può diventare manichea, tracciando una linea di confine tra uomini e no, come invece voleva Elio Vittorini nel romanzo con quel titolo perentorio.
Scrivere a destra è una ferma protesta contro una discriminazione del genere; meglio, è una difficile, straziata abiura, poiché sulle pagine di Vittorini, sulla loro oscillazione tra impegno e mito, eticismo e incanti nostalgici, Di Grado si è formato e si è a lungo trattenuto, salvo attingere un contravveleno nella lucidità senza integralismi né favole di Vitaliano Brancati.
Rinuncia al manicheismo non significa, beninteso, livellamento delle azioni e indiscriminata condiscendenza verso i carnefici, “mostri” sciaguratamente generati “dal fanatismo e dalla sopraffazione”. Significa piuttosto sorprendere, “in quelle maschere”, una luce non del tutto spenta, “il barlume di un candore offeso o di una romantica protervia”; e magari condividere “il grumo segreto di pena che le costrinse in una smorfia di rancore”. Schivando (e denunciando) il piano inclinato su cui sembrano a volte scivolare le odierne scienze umanistiche, fino alla riduzione dell’arte a meccanismo e congegno, Di Grado rivendica alla storia della letteratura la responsabilità di “leggere nei referti d’una tragedia le espressioni di un groviglio di luce e tenebra”, insomma di rinvenire una “massa irredenta di umanità”, formulazione quest’ultima felicemente rubata a Sciascia, a quel romanzo scandaloso che fu e rimane Il giorno della civetta, dove “uomo” è anche il capomafia, e non solo il capitano dei carabinieri impegnato a dargli la caccia.
Ma ancora: la rassegna di coloro che, durante il ventennio, scrissero a destra, noti e meno noti, non riconosce ai suoi controversi protagonisti solo un residuo incancellabile (e decisivo!) che resiste al loro errore; certifica anche, per non pochi, un’effettiva statura intellettuale, tutt’altro che divergente – e qui sta il punto – dalla posizione politica ufficialmente abbracciata.
Subisce così una frontale smentita uno dei presupposti che ha dominato lungamente la nostra interpretazione di quel periodo. Non esiste (si diceva) né può esistere una vera e propria cultura di destra; e va perciò ritenuto occasionale o strumentale il rapporto col regime di questi letterati conniventi, infelicemente scesi a patti, d’accordo, ma per un malaugurato equivoco, oppure per una necessità inderogabile. Tanto il presupposto quanto la correlativa inferenza si rivelano ben suscettibili di revisione.
Per limitarsi a un esempio emblematico che Di Grado mette in luce, nella giusta luce: Pirandello non è un grande intellettuale e un impareggiabile scrittore a prescindere dall’ossequio al fascismo, che sarebbe meramente opportunistico; elabora piuttosto e mette in scena quello sgomento del caos, quell’ansia di consistenza e di forme che motivavano la sua decisa opzione politica, davvero non esteriore. Un caso isolato? Per sostenerlo occorre una insistita sordina su una fitta serie di autori e di non ignobili ricerche espressive; che difatti hanno subìto una damnatio memoriae, spesso immeritata.
È che una simile rimozione favoriva anche un altro teorema storiografico, per lungo tempo in auge: l’idea che gli scrittori degni di questo nome avessero virato in gran parte, sotto la dittatura, verso la cosiddetta aura poetica; e con mossa mirata, strategica, utile ad aggirare – mediante climi rarefatti e allusivi, sonde lanciate in una enigmatica interiorità, stratificazioni puramente psicologiche di piani memoriali – la pressione di un potere avvolgente e invadente, che domandava allori per i suoi presunti successi. C’è del vero in questa diagnosi di un intimismo d’opposizione; e resta comunque indubitabile che la linea ermetico-solariana sia stata altamente produttiva.
Nessuno può rinunciare a Sentimento del tempo, senza cui la parabola di Ungaretti riuscirebbe pesantemente decurtata; e l’invito di una rivista come Solaria a una prosa insieme controllata e pregnante continua ad apparirci apprezzabile, al pari degli esiti che suscitò. E tuttavia – avverte Di Grado – quella non fu l’unica linea: in parallelo, e talvolta in prossimità, se ne sviluppò un’altra, avvalorata da letterati poco o tanto in asse col fascismo e interessati proprio alla realtà, senza per questo alcuna resa incondizionata alle facili sirene del propagandismo.
Ecco così affiorare una produzione di stampo realistico ed espressionistico, che comprende Alvaro, Puccini, Gallian, Comisso, Lanza, e non è così lontana dagli esperimenti di Moravia. Un percorso del genere non era affatto senza sbocco: avrebbe poi contribuito ad alimentare, nel secondo dopoguerra, l’insorgenza neorealista, sicuramente non nata dal nulla.
Sono molti di più, peraltro, i nomi che Di Grado prende in consegna, preoccupandosi fino a un certo punto di incanalarli in questo o quel solco espressivo, anzi prediligendo le figure di difficile classificazione, il camaleontico Curzio Malaparte, Berto Ricci aurorale e moralista, Alberto Carocci fondatore di Solaria e romanziere solariano sui generis.
La galleria di Scrivere a destra è ricchissima, includendo, fra l’altro, un debito versante femminile, dove spiccano, per motivi diversi, la straripante Sarfatti e l’umbratile Antonia Pozzi. Semmai c’è da chiedersi come riapparirebbe lo scenario se l’indagine sui narratori (e su alcuni drammaturghi, Rosso di San Secondo in particolare) si facesse accompagnare da un reportage analogamente ampio sui lirici (qui non in programma, salvo l’omaggio struggente ad Antonia Pozzi, precoce poetessa e precoce suicida).
Dalle pagine eleganti e urticanti di Scrivere a destra – arditamente in bilico fra elzeviro e pamphlet – il lettore riemerge con molte notizie in più e qualche pregiudizio di meno. Vent’anni di letteratura si ripresentano folti e variegati, senza gli omissis di una inveterata riduzione, tendenziosa o semplicemente miope. Certo, dopo quegli anni doveva giungere la guerra, attizzando tutte le degenerazioni che ancora sonnecchiavano nel Dna di una dittatura feroce; e si rivelò, almeno a coloro che, nel fumo e nella foga della mischia, si dimostrarono chiaroveggenti, qual era la parte da scegliere. Anche se quella parte fu capace, a sua volta, di atrocità tutt’altro che necessarie, al dettaglio e all’ingrosso.
Parole autentiche vennero allora da quegli scrittori – importa relativamente se imboscati o in trincea, se nella trincea giusta oppure no – che avvertirono l’urgenza di una riconciliazione. Come Cesare Pavese, nella sua lancinante consapevolezza che “il nemico è qualcuno” e che “dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso”. O come Giuseppe Berto, nel suo romanzo-diario di combattente in camicia nera sul fronte africano. Dichiarava introduttivamente, Berto, di aver scritto per avversari e nemici: “perché vorrei che riconoscessero nei miei soldati una sostanza umana comune a tutti i soldati e a tutti gli eserciti”; e per far sì “che la guerra sia veramente perdonata”.
Facendo lavorare ulteriormente questi lacerti, avvalorati dallo stesso Di Grado, e altre consimili testimonianze, che non mancarono, è possibile approfondire ancora la questione aperta della memoria divisa e delle guerre civili a fondamento delle nazioni moderne.
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