Che un libro che fa da contraltare all’ideale moderno di movimento infinito sia un successo, è controintuitivo. Eppure è il caso di Dimora (Edizioni Itaca) di Francois-Xavier Bellamy, filosofo francese quarantenne. Il testo inizia con un’analisi della storia della filosofia e della scienza, in cui con termini semplici l’autore racconta come l’idea di progresso frenetico, di movimento inarrestabile sia entrata poco alla volta nel mondo della filosofia (a partire dal “panta rei” di Eraclito) e nella scienza, con le scoperte copernicane. Il passo, spiega l’autore, dalle scoperte e dalle riflessioni degli scienziati al trarre delle conclusioni sconvolgenti è stato breve: se tutto è moto, allora non c’è alcun punto di riferimento, perché anche i punti di riferimento sono in moto, fluidi e spostabili. Tutto diventa relativo. E qui si innesta la critica fondamentale, che non è un inno all’immobilismo, anzi. Ma è, come ripete nel testo, un invito a capire e scegliere una direzione verso cui si va: “Dove stai andando?”.



Per descrivere la rotazione della terra occorre “affrancarsene”: è l’auspicio di una sosta dalla frenesia, in cui riscoprire il senso e la nostra direzione nella rinascita di un sentiero delle virtù, quali punti cardinali del moto. Paradossalmente, avverte l’Autore, non avere direzione genera atonia perché ormai “non si tratta più di descrivere con degli aggettivi la diversità delle cose, ma soltanto di riportare tutto quello che si vede alla generalità delle leggi scientifiche, la cui applicazione sarà tanto più certa in quanto sarà ormai quantificata”. Questo concetto mi è particolarmente caro perché una delle critiche che ho spesso fatto al sistema lavorativo è quello di ridurre l’opera umana ad applicazione di protocolli e alla loro moltiplicazione, pensando così di apportare miglioramenti e non capendo che quando tutto diventa protocollato al massimo si garantisce la mediocrità.



L’invito del libro è a riflettere, ad uscire dalla frenesia: “Se tutto scorre non c’è più un luogo che possa essere la meta del movimento” e il motto diventa: “Devo comunque correre e accrescere il mio potere per precedere l’altro”. L’invito è a riflettere e individuare la direzione, il senso, fuori dalla frenesia. Da scienziato noto che curiosamente proprio in questi anni la scienza sta individuando come dal punto di vista neurologico il creare momenti di rottura nella frenesia mentale sia indispensabile per l’igiene mentale. Il nostro organismo infatti ha in sé degli strumenti di cui non ci accorgiamo ma che hanno proprio questo ruolo: sono i pattern ritmici che inconsciamente mettiamo in atto nei momenti di ansia o panico, pattern semplici ed elementari, risorse contro il ruminare delle idee, contro la fuga affabulatoria dei sentimenti. Sono il semplice masticare ritmicamente, il respirare calmi, il camminare lenti che attivano dei pattern ritmici che a loro volta – è stato visto recentemente – influenzano e stabilizzano i processi neuronali encefalici. Tra questi, due fenomeni che ho studiato di recente, cioè il pianto e paradossalmente la sua antinomia: il ridere. Sistemi autonomi dell’organismo per bloccare la frenesia, utilizzati anche in sistemi più strutturati come il training autogeno o la mindfulness, e che hanno lo stesso spirito espresso nel libro: dire “Alt!” alla corsa senza senso. Si badi bene, non a qualunque corsa, ma a quella senza senso, quella della crescita del Pil, quella del prevalere, quella dell’invidiare, quella di chi si definisce “anywhere” – come si spiega nel testo -, cioè senza dimora. E Bellamy ci invita a farlo col titolo “Demeure” che in francese significa sia “Casa” che l’imperativo “Aspetta un attimo!”. Interessante questa sincronia tra progresso scientifico e riflessione filosofica.



Fondamentale poi è quanto l’autore spiega dell’abitare: “L’uomo non ha soltanto bisogno di alloggio, ha soprattutto bisogno di un’abitazione”. Anche in questo lo sento vicino per un tema che uso spesso: si crede che nell’edificare venga prima il costruire e poi l’abitare. Sbagliato! Prima si deve abitare un posto, si deve conoscere, assaporare la terra, conoscere i materiali, la storia, possederlo insomma (abitare viene dal latino habeo) e poi allora e solo allora si potrà costruire cioè mettere mattone su mattone.

Il testo finisce con una bellissima immagine di Ulisse che compie il suo pellegrinare inquieto ma ha sempre nel cuore la direzione di Itaca; l’invito nel testo non è a fermarsi per dormire, ma a fermarsi per sostare, riempirsi i polmoni e domandarsi “Dove è la mia Itaca?”.