“Forse li salveremo così, Gionata/ cercandoli per nome in qualche terra/ fertile prima che il tempo li porti via/…Giurami/ però che sia una voce alta la tua/ la nostra da conservare volti e/ giorni a lungo quasi una gloria buona/ li abitasse…”. Così comincia il primo dei 122 testi che compongono Cose di provincia, la nuova raccolta di poesie di Ivan Fedeli pubblicata da Puntoacapo Editrice. Testo che è una confessione esplicita del compito che il poeta si assume, accingendosi a questo lungo viaggio: fermare sulla pagina volti, cuore e sguardo di persone che vivono o hanno vissuto dentro la storia minima della provincia milanese, delle sue case, delle sue luci e delle sue nebbie. Vite vere di personaggi veri, che certo il poeta ha conosciuto, ma che appaiono quasi inscritte in una narrazione mitologica, dentro una memoria orale che si tramanda di generazione in generazione e di cui lui ora è custode.
Nella chiusura di molti testi i personaggi non sembrano più figure che il poeta ha incontrato di persona: dicono, si racconta, qui ricordano, sono tutti modi per dire che la memoria non è più una questione personale, ma diventa una forma di conoscenza collettiva che, opponendosi alla dimenticanza, tenacemente racconta, ricostruendo e aggiungendo, talvolta mitizzando. Il signore degli orologi, il Zoja, il Barba, la mamma del don, l’Ettore, il Gigin Barloeucc, la Colomba e tutti gli altri che popolano le pagine di questo libro sono i protagonisti di un racconto a suo modo epico; nella loro assoluta specificità, nel loro singolarissimo esistere diventano emblematiche figure di un modo di stare al mondo che lo stile icastico di Fedeli mette lì, al centro del suo testo: l’Angelo del pane “era la mattina per noi tra il latte/ in busta e le michette messe lì/ sulla porta di casa a fare buono/ il giorno”; il Luigi “era il vigile buono della festa/ quello dal cappello con lo stemma e i bottoni d’oro addosso a brillare/ che nemmeno le stelle”.
Togliere dal cono d’ombra della dimenticanza ciascuna di queste figure, metterla sotto la luce di una lampada – direbbe la Dickinson – è il lavoro che compie questa poesia. E ogni figura vive qui – avverbio di luogo che compare in ciascun testo – in “una provincia/ in bilico tra nebbia e città dove/ la poesia fa ogni cosa possibile”, in una provincia fatta di case basse “uguali tra loro e tra loro/ diverse a seconda del cielo sopra/ delle vite di chi ci vive”.
Se qui è l’avverbio che diviene coprotagonista del libro, nel viaggio compiuto da Fedeli campeggia quasi ossessivo il sostantivo cuore: la Mariuccia della frutta “pesava/ la frutta e il cuore a capire la tara/ o nel senso della vita; l’Andrea postino “aggiustava cuore e cappello; il Callisto spegne “luci e cuore” del bar alla sera; l’Adriano “infilava guanti e cuore”; il Primo si nasconde “tra i baffi scuri e il cuore”; la Rosina “aveva casa e cuore/ qui tra una sgridata ai figli e la pizza”; il Congiu che faceva il portiere in fabbrica “apriva cancelli e cuore ai papà dopo il turno”.
E quasi ovunque, disseminato nelle pagine, ad accompagnare cieli, sguardi, vita, mondo e silenzio troviamo l’aggettivo buono, come a dire che il poeta scherza con il fuoco, perché sa bene che le poesie piene di cuore e di bontà stanno in bilico, vivono a un passo dal precipizio. Ma Fedeli non ha paura e vince la sua scommessa: il suo impressionismo descrittivo aderisce con complicità alla vita dei suoi personaggi, ma il registro della sua poesia non diventa mai sentimentale.
Come avevo già detto in altra occasione – e come è scritto quasi come un destino nel nome del poeta – per la poesia occorre restare “fedeli” al dato, mettersi ad ascoltare la sua voce segreta, per conoscere e vivere, prima ancora che per scrivere, in modo onesto e vero.
E il poeta, dopo Campolungo, Gli occhiali di Sartre, La meraviglia, anche in questo libro continua a piegarsi su questa umanità semplice, che spesso vive, pensa, guarda e sorride in dialetto; la segue perdendosi dentro i suoi gesti minimi, nella sua dignità fiera e spesso inconsapevole, nell’aria buona della provincia. Di questa provincia, alla fine rimangono le vite dei protagonisti ritratte con poche, sapienti pennellate; rimangono le loro umili vicende quotidiane sottratte all’apparente insignificanza del tempo; resta la loro dignità di gente che ha vissuto e vive con forza insospettata in luoghi in cui “la felicità talvolta accade”.
Il dettato di Fedeli è piano, non oscuro e cerebrale come accade in tanta poesia contemporanea, ma non ci si deve lasciare ingannare: come diceva Ungaretti, anche la poesia più semplice, per essere poesia, deve contenere un segreto, ed è così che accade in queste Cose di provincia, che vanno lette con pazienza, ascoltando ogni piccolo snodo del testo, prestando attenzione al mistero buono che canta in fondo a ogni cuore che vi viene raccontato.
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