È dei giorni scorsi la pubblicazione dell’ennesima nota della Commissione in cui si anticipano le Raccomandazioni rivolte al Governo italiano sullo svolgimento della politica economica dell’anno in corso. Ci si trova di tutto: dalla revisione degli estimi catastali al Pnrr; dalle energie rinnovabili alla riforma fiscale (che dovrebbe “preservare la progressività del sistema tributario”); dalle concessioni balneari all’invito a tagliare i sussidi sulle bollette. Per non parlare di autonomia differenziata, transizione green e diversificazione delle fonti energetiche.



Insomma, basta aver pazienza e in quel documento si trova un’indicazione su ogni punto dell’agenda politica in corso. E il tutto è condito con il richiamo al fatto che dal 2024 la sospensione del Patto di stabilità indotta dal Covid terminerà, con il ritorno al regime ordinario. Quale poi dovrebbe essere questo regime ordinario ancora non si sa, visto che la proposta di revisione della Commissione è ancora ferma là dove stava qualche mese fa. Quel che è certo è che, comunque vada, per i bilanci statali il periodo della corda lunga sta per finire. Ed il programma di governo per l’anno in corso è stato scritto.



Al di là del dato di cronaca, bisogna ammettere che questo non è niente di troppo nuovo dal punto di vista del rapporto tra istituzioni europee e politica nazionale. Anzi, è del tutto normale. In fondo è dal 2011 che la strada è stata tracciata, nonostante le invocazioni alla Costituzione e i lamenti sul deficit democratico dell’Unione. Che ormai, bisogna ammettere, costituisce un genere letterario a sé. E che è costruito sulla banale osservazione per cui ormai le decisioni strategiche in Italia – e con diversa intensità nel resto d’Europa – vengono prese a Bruxelles e a Francoforte, mentre a Roma al massimo si decide sul come attuare ciò che si decide altrove e con quali soldi. Chi lo deve attuare è secondario, basta che faccia quel che deve.



Ecco allora che, se di questa situazione si vuol provare a capire qualcosa di più, il recente, piccolo volume di Marco Dani e Agustín Menendez Costituzionalismo europeo. Per una ricostruzione demistificatoria del processo di integrazione europea (Napoli, ESI, 2023), può essere d’aiuto, perché, al di là delle pretese “demistificatorie” del titolo, ci fa capire, se si sa leggere, che quello del “deficit democratico” è un falso problema. E che l’Unione Europea funziona così semplicemente perché è stata progettata per funzionare così.

Nel libro si propone una sequenza informata, veloce e realistica delle diverse fasi in cui si è svolto, dagli anni 50, il dibattito su cosa sia l’Unione Europea, mettendo subito in chiaro che l’Europa non ha una Costituzione in senso classico ma, al più, ha una Costituzione funzionale. In altri termini, l’Europa non ha una Costituzione, visto che, fra il 2004 e il 2005, quando c’era da decidere se averla, nessuno l’ha voluta. In cambio, con Maastricht prima e con Lisbona poi, l’Europa ha messo assieme un sistema di atti, trattati e procedimenti che, tutti assieme, operano come una Costituzione, però senza esserlo. Il che è molto coerente con la parola magica che ha accompagnato, fin dai tempi di Jean Monnet, il federalismo impossibile delle istituzioni europee: e cioè funzionalismo.

In questo modo Dani-Menendez ci fanno vedere come l’ordinamento europeo, da sottosettore del diritto internazionale come è stato dall’inizio fino alla fine degli anni 70 (e ancora oggi, almeno sulla carta, l’Unione si regge su Trattati internazionali), sia via via divenuto qualcosa di diverso, i cui contorni si sono fatti sempre più chiari dopo la svolta impressa al sistema dal Trattato di Maastricht e dalla creazione della moneta unica. La fissazione nel 1992 dei parametri del 3% e del 60%; la creazione del Patto di Stabilità nel 1997; gli istituti creati dopo la crisi subprime del 2008, tra cui quel Mes di cui si continua a parlare oggi (e che sta rinnovando la tradizione del romanzo d’appendice), hanno spostato l’asse dell’ordinamento europeo dal costituzionalismo classico al costituzionalismo economico, fondato su istituti e meccanismi mutuati dal diritto pubblico dell’economia.

Ed è proprio il fatto di non aver preso sul serio la natura costituzionale del diritto pubblico dell’economia – e cioè dell’ordoliberismo tedesco assunto a modello istituzionale di un intero continente – ad aver generato tutti gli equivoci e le forzature di cui si trova traccia nella riflessione di chi ha provato a rispondere alla domanda “ma che cos’è l’Unione Europea” partendo dalle categorie del diritto internazionale o, rispettivamente, del diritto costituzionale, inteso come diritto che deve guidare le scelte dello Stato.

Se ha un merito, il libro di Dani e Menendez è quello di mettere in luce che il diritto dell’Unione non è ormai né diritto internazionale, né diritto costituzionale, ma è essenzialmente un diritto pubblico dell’economia ad applicazione uniforme che aggira e condiziona gli istituti del diritto costituzionale “interno”. E, in secondo luogo, ha il merito di mettere in luce il fatto che, da Maastricht in poi, nel rapporto tra ordine europeo e costituzioni nazionali si è avviato un percorso inverso, e cioè di rilettura delle Costituzioni nazionali alla luce delle categorie del diritto dell’Unione.

Questa inversione, che si è fatta evidente dopo la crisi del 2008, non si è tradotta solo in uno spostamento dei centri di decisione politica dagli Stati nazionali a Bruxelles o a Francoforte. Si è tradotta soprattutto in una ridefinizione complessiva di diritti e istituzioni del costituzionalismo classico, letti ora nella prospettiva della dottrina economica codificata nei Trattati. Si pensi alla vecchia libertà di circolazione che è divenuta, nel sistema neoliberale europeo, un surrogato della politica sociale (non hai più diritti sociali, ma puoi emigrare e andare a vivere là dove c’è lavoro). E che da diritto dell’individuo è diventata garanzia della mobilità di un fattore della produzione (il lavoro) necessario al funzionamento di quell’Area valutaria ottimale che avrebbe dovuto essere l’Area euro. Almeno nella mente dei suoi architetti.

Si è così compiuta una ridefinizione del costituzionalismo nazionale ad immagine del diritto europeo, dovuta al fatto che “la spesa sociale e i diritti sociali sono diventati le uniche variabili di aggiustamento macroeconomico rimaste nella disponibilità degli Stati membri” (p. 68): sono, in altre parole, le uniche variabili di bilancio che possono essere compresse. Il che ha condotto a quel fenomeno di disattivazione di larga parte delle Costituzioni nazionali (sanità, istruzione, previdenza, ed assistenza) che varia da Stato a Stato, a seconda delle disponibilità di bilancio, ma che è uniforme nello smantellamento del disegno che stava alla base delle democrazie sociali del dopoguerra.

Insomma, se un tempo si leggevano i Trattati alla luce della Costituzione nazionale, ora a dover esser lette alla luce della “Costituzione” europea sono le Costituzioni nazionali. Che per sopravvivere devono accettare di adattarsi e mutare. E l’analisi di Dani-Menendez spiega bene questo fenomeno di riduzione delle Costituzioni statali a meccanismi di selezione dei governi di esecuzione locali, e a cataloghi di “valori” da selezionare e manipolare a seconda delle esigenze del momento. Da qui viene anche l’appassimento del dibattito di politica interna, condizionato com’è dai temi e dalle “Agende” europee. E che sta alla base del calo delle percentuali di voto ad ogni tornata elettorale.

Quel che ne esce è “una versione aggiornata del costituzionalismo liberale, avvolta nella retorica del suo storico oppositore e sostituto” (p. 73): e cioè “qualcosa che inevitabilmente apre la strada a una regressione autoritaria” (p. 72) rispetto a quel modello di costituzionalismo su cui l’Unione si è basata settant’anni fa, con aspirazioni del tutto diverse rispetto ai risultati conseguiti. E di cui leggiamo tutti giorni nella cronaca politica, che si tratti di Mes, di tetti alla spesa, o di politiche green. Non a caso appena introdotte in Costituzione per adeguare l’ordinamento interno alla nuova, vera Costituzione funzionale europea.

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