Affrontiamo la shakespeariana realtà dell’Occidente dal kathéchon alla crisi dello Stato hobbesiano costretto al parlamentarismo liberale naufragato in qualche decennio.
Con la fine dell’ordine del kathéchon che era la vera forma politica concepibile nell’orizzonte cristiano del pensiero classico, l’eroico tentativo dantesco (duo ultima hominis) di fondare l’autonomia dell’Imperium arriva al suo compimento con lo Stato hobbesiano secolarizzato (deus artificialis creator). Non più, com’era nell’intero spirito europeo-mediterraneo, uno Stato defensor della pace ma contenitore del multiverso degli individui e degli interessi sotto un solo diritto, in una Legge spazialmente ben definita e assolutamente sovrana nel suo spazio.
Già si intravedeva quella nietzschiana malattia mortale rappresentata dall’Homo Deus che in nome dei valutati della Tecnica ha reciso l’origine del Nomos, sradicandolo da ogni Ethos. È così che lo Stato fondato pattiziamente sulla base di una convenzione tra i diversi individui si trasforma in quella Machina machinarum, il gelido mostro nietzschiano, in Stato detentore dell’autorità assoluta proprio perché del tutto de-personalizzata e de-politicizzata e, quindi, senza più tensione tragica tra legge divina e legge umana, tra legge scritta e legge non scritta.
Nella sua Critica, Emmanuel Kant aveva per tempo avvertito che l’antinomia creata dall’assenza di una “radice” delegittimava costantemente il Nomos del moderno Stato. Più di un secolo precedente al mackinderiano dualismo geopolitico Heartland-Rimland, Kant pensava alla tensione metafisica terra-mare: tra la iustissima tellus della ratio economico-giuridica e l’oceano che sospinge la nostalgia invincibile per l’ignoto, l’amore per l’irraggiungibile lontano. Kant metteva in guardia sull’inevitabile conflitto tra lo Stato di diritto (terra) e l’imprevedibile produzione dei valori (mare).
Per aggirare tale conflitto, il principio liberale di indifferente equivalenza dei valori e la “dialettica dei distinti” voleva garantire, con la parlamentarizzazione dello Stato moderno, la loro pacifica co-esistenza. La potenza secolarizzante della Machina metamorfizzava ogni valore in valutato.
I partiti politici, cuore del parlamentarismo liberale, inizialmente portatori di interessi di individui e rappresentanti di valori ideologici in ultima istanza non scambiabili, hanno rapidamente assunto la forma antinomica del partito totale per inglobare la cosiddetta società civile, le cui leggi miravano oggettivamente a de-costruire la forma statale in un complesso di contratti privati, di scambi tra individui e interessi privati. In questo processo, l’attività dei Parlamenti legiferanti è mutata in ratificanti di decisioni prese altrove, nelle anticamere degli uffici reali del potere. I Parlamenti così ridotti a scene vuote, utili ai compromessi paralizzanti, inducono costantemente al proprio suicidio, favorendo tendenze autoritarie-plebiscitarie.
In un’epoca dominata dai valori economici, quando perfino il kathéchon schmittiano non coincide più con lo Stato che protegge dal caos, ma è relativizzato dalla formidabile pressione universalistica del mercato mondiale, è emersa con forza tutta la contraddizione concettuale dell’idea liberale: che si possa dare uno Stato (dominato dai partiti) il quale rinunci se non alla guida, al controllo dell’economia. Anche un altro prodotto della logica dei distinti – la divisione dei poteri – vive spettrale la fine di un’epoca: da un lato, i Parlamenti sempre meno funzionanti delegano per forza poteri legislativi all’esecutivo, dall’altro, la collocazione del potere giurisdizionale è caratterizzata da occasionalismo, anche per la crescente “illeggibilità” di leggi che sono il prodotto di defatiganti e occulti giochi di compromesso.
In questo contesto l’Europa vive la sua fine, senza saperla pensare e, anzi, confondendo i sintomi con le cause: naufraga l’idea liberale della “conversione” dello Stato in un insieme di rapporti giuridici formalizzati, in quella weberiana Amministrazione (Betrieb), perché è fallita l’idea-utopia della possibile neutralizzazione del Politico rispetto alle dimensioni amministrative, e soprattutto economiche. Da un lato l’economia internazionale si è liberata del vestfaliano diritto interstatale europeo, fondato sull’esistenza di Stati effettivamente sovrani, dall’altro i grandi Stati ex-socialisti (Russia e Cina) rivendicano il principio cuius regio, eius oeconomia ergendo antemurali al linguaggio vittorioso (euro-americano) dell’economia e della tecnica che esige un unico spazio, un unico concetto di spazio con un’unica mente, come forma a priori “libera” da ogni differenza di luogo.
Come possiamo constatare nei nostri giorni, anche il senso della guerra si adegua perfettamente a questa epocale trasformazione e contrapposizione. L’Europa, una volta schmittianamente pensata come “sacrale centro della terra”, deteneva i principi dello Ius publicum ed era in grado di inventare nuove istituzioni per dar forma ai nuovi rapporti economici e ai nuovi conflitti che ne derivano. Oggi, la tragedia del mero presente storico effettuale lascia amleticamente spaesati, orfani di una grande narrazione che non permette più di prevedere alcun Deus ex Machina.
È in questa condizione – nel non-luogo dell’interminabile tramonto dell’Occidente europeo – che la maschera schmittiana dell’Amleto decide, ri-cordando sé stesso e la propria origine (divina). È proprio nella sua condizione di sospensione tra ordine e luogo (Ordnung e Ortung) – nel non-luogo – che il silenzio della maschera, simbolo del dualismo, liquida entrambi (Cfr. Carlo Galli, Genealogia della politica: Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno”, Il Mulino 1996). Decide, dunque, pensando sé stesso! Decide, perché quel Nomos originario è stato sradicato dal Theîos e alla fine non può che apparire artificio dell’uomo. Quindi, l’Amleto decide per il tramonto del già stato perché altro avvenga in una nuova relazione tra l’osservatore e l’osservato.
L’Europa che sopravvivendo resiste al proprio compimento, cioè l’Europa che tramontando non si custodisce-nasconde in silenziosa maturazione nel linguaggio ereditato, e non s’apre al nuovo inizio, non ha futuro. L’Europa teme il tramonto perché lo concepisce come semplice, immediato destino, lo vede come il prodotto di forze estranee. Eppure, questa era l’unica autentica decisione che l’epoca (della fine della guerra fredda) le imponeva: ri-volgersi al proprio stesso fondo, essere sullo s-fondo (Agathon) dove eccede il determinabile. Lo s-fondo dà vita per compiere l’unica scelta impossibile, quella metafisica-ontologica, tramontando dal mondo pensato, regolato, determinato, nel quale naufraga. È l’infinito che permette la navigazione permanente perché è sullo s-fondo che il tutto è reale. L’impossibile dell’Europa era il suo unico futuro perché, come diceva Nietzsche (decadenza degli uomini postumi), solo i tramontanti hanno futuro. Solo l’Erinnerung dà l’idea non etica della libertà, che non è determinata dalla presenza dell’ente. In senso metafisico l’ente è libero dalla sua relazione, l’ente è ontologia non gnoseologia (Heidegger), l’ente è nella sua essenza (eterno passato – imprevedibile futuro). Nessun contraccolpo è venuto dall’Europa, che liberamente scelse di non volere il tramonto, di non assecondarlo, di non parteciparvi, ma di lottare per i propri valori, o, ormai, per la dissacrazione di tutti i valori come proprio nuovo valore, di ritenere verità i propri dogmi e le proprie congetture, e propria missione imporli.
L’analogia è al dualismo della guerra fredda che non era transizione verso l’unità globale – la schmittiana globale Zeit mistificata da pensieri oscillanti tra lo scontro delle civilizzazioni e la fine della storia –, ma durissima lotta per stabilire quale potenza avrebbe guidato l’epoca globale, che era il fine e il valore di entrambe. Infatti, entrambe le potenze per prassi o decisioni politiche manifestavano lo stesso tramonto dello Stato sovrano europeo, la crisi irreversibile dei suoi istituti e delle sue forme di rappresentanza, la medesima volontà di imporsi-sovrapporsi alle Nationes.
Nel 1991, restava un solo “sopravvissuto” che doveva ottemperare al proprio dovere di fondare il suo impero su un nuovo Ius gentium. L’Europa aveva rinunciato a sé stessa (atopia). Non partecipò a costruire la nuova utopia – il nuovo ordine post- e neo-liberale – restando vigile e insonne contro sé stessa, senza più l’energia di quel “sano egoismo” per aggredire l’altro fuori da sé: l’occidente della sua storia. L’altra potenza era collassata perché gli abitanti avevano perso fiducia nei loro capi. Il nesso più profondo tra eredità classica e cristianesimo si materializzò nella lotta contro di sé – odiava sé stessa – cioè contro la propria volontà di conservazione, di sopravvivenza, la propria inospitale resistenza al richiamo dell’altro, dell’assolutamente distinto. Importare il nuovo, solo perché diverso dal vecchio, nell’immediato divenne il fine della ricerca di senso. Fu in quest’archetipo della catarsi – dell’imparare soffrendo – che, agostinianamente, nella ricerca crebbe l’amore di ciò che veniva cercato (lo Stato). Il “sopravvissuto” mantenne il suo dominio, divenuto inconsapevolmente unipolare, null’altro che come espressione del tramonto dell’antico Nomos, un dominio di fatto che si è espresso in una sequela di atti e di decisioni, mascherati di volta in volta dalle più occasionali giustificazioni. In assenza di contraccolpi, il dominio si è costruito sul linguaggio dell’unico “sopravvissuto”: quello della “libertà” del commercio, dell’economia, e della tecnica universali. Nessuna forma fu data allo sradicamento del Nomos, per stabilire uno Ius gentium che potesse valere proprio per gli orfani e i nomadi dell’epoca globale. Anche il lontano Oriente, lontano perché fisicamente distante dal “sacrale centro della terra”, fu cooptato nel nuovo ordine (oeconomico). Imponendo una sua Lex mercatoria, il “sopravvissuto” aveva scambiato il mezzo con il fine, illudendosi che l’Uno fosse il tutto.
Nonostante sia noto che le tendenze universali all’unità radicalizzano, non contraddicendo, i caratteri e il linguaggio del nihilismo europeo e le identità culturali e spirituali degli altri (intolleranza per l’assolutamente distinto), il “sopravvissuto” si percepì creator pacis, capace di neutralizzare il “barbaro” conflitto con una piena calcolabilità di “valori” che riducevano anche il “pericolo” del Politico alle norme dell’Amministrazione. Il principio applicato era semplice: tutto deve ridursi ad equivalente-indifferente, ma non l’universale equivalenza. Il fine era la neutralizzazione dei valori, per cui tutto deve risultare contrattabile e scambiabile ma non l’universale dominio del contrattabile e dello scambiabile.
La Grande Isola (il “sopravvissuto”) ricorda la sua origine rivoluzionaria: il pensiero rivoluzionario pensa di poter pervenire ad una reale uguaglianza “soltanto mediante l’abolizione del non-uguale” (Cfr. Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Giuffrè 1986). La Grande Isola ha applicato la tipica formula relativistica della tirannia dei valori – autentico compimento di quella utopico-rivoluzionaria – per annichilire l’antico diritto europeo, affermando che l’altro in quanto altro costituiva l’aggressore da eliminare, se si voleva seriamente costruire una vera pace per un unico spazio e per tutto il genere umano. Un’estremizzazione del fare che in tutta la sua “intolleranza” ha mostrato come nessuna tirannia dei valori sia mai più violenta.
La Grande Isola ha sussunto l’essere Occidente europeo in un occidente con le forme della tolleranza proprie dell’Aufklärung: prepotente pre-giudizio intorno alla suprema evidenza del proprio cogitare, per cui le altre culture sono tollerate in quanto precisamente in-fanti, cioè in itinere verso l’unica forma controllabile che è quella della propria “illuminata” ragione discorsiva. L’intelligenza dell’Occidente europeo migrata nella Grande Isola vuole ancora potere, senza ricordare anche l’eterogenesi dei fini immanenti ad ogni volontà di potenza. Un’intelligenza che vuole distruggere, senza sapere del delirio connesso ad ogni pretesa di poter distruggere alcunché (Cfr. Fernando Pessoa, Faust, Einaudi 1990). È convinta che la pax profunda sia il prodotto di una radicale, estrema armonizzazione del distinto: tollerate, ma insieme educate! La pace si darebbe, allora, soltanto depotenziando il distinto, oppure assumendo il distinto per quei soli aspetti per cui non si distinguono, e dunque non assumendoli di fatto. L’era della Grande Isola mostra i tratti di un’unità globale di spazio e tempo e di una disgregazione “polemica” pura (Pólemos è il demone della guerra), senza avere la capacità di creare quella connessione che è davvero potente quando connette l’assolutamente distinto, ovvero ciò che può separarsi – quando l’abbandono significa l’estrema vicinanza, e l’estrema vicinanza è “salva” proprio nella possibilità della separazione. Diversamente dall’Occidente europeo, l’occidente non cerca di pensare la verità dell’altro come insuperabile e costitutiva del distinto, oltre ogni idea di armonia e tolleranza.
Dopo il trentennio di assenza dalla storia, sarà capace l’Europa – l’Occidente europeo – di ri-cordarsi per trovare in sé un proprio ancora in-audito, la forza di un nuovo inizio capace di parlare alla stessa Grande Isola che ne ha perfettamente realizzato l’utopia universalistica e onnivora? La domanda pregnante è se l’Europa sia ancora in grado di pensare come Ethos comune il conflitto dei distinti. Il contraccolpo alla storia europea è già stato dato (guerra russa in Ucraina), ma la risposta richiede di andare oltre la historia schmittiana, oltre il destino dello Stato moderno, di tutte le grandi forme politiche della nostra tradizione, e della stessa forma politica del cattolicesimo romano.
Solo la mente europea può giungere a porre al proprio centro il contraccolpo ricevuto versus sé stessa: essere Occidente che si compie in sé. Questo pensiero appartiene all’Europa. È necessario per l’Europa riconoscere il proprio stesso occidente perché sappia pensarsi Atopia – l’assurdo non-luogo – dove la volontà di potenza implode nell’indifferenza portata dalla Stasis interiore, una guerra civile dalla quale risale la visione chiara del distinto, la meraviglia per la singolarità di ogni forma.
L’occidente ha avuto l’ambizione di depoliticizzare la vita (Polis e Oikos) per rendere impossibile la Stasis – la tensione tra politico e impolitico – che deve essere ricordata sempre attraverso processi e persecuzioni legali. Un’epoca relativistica della tirannia dei valori nella quale il riconoscimento indifferente delle differenze – non tenendone conto – presuppone la superiorità gerarchica del punto di vista che ritiene indifferente quella cosa (Cfr. Louis Dumont, Homo hierarchicus. Essai sur le système des castes, Gallimard 1966). In quest’epoca sembra che anche la guerra – contro l’altro in quanto altro – non sia più ammessa. Ma solo l’incantato utopismo liberale può dimenticare che la guerra è una delle dimensioni della Téchne Politiké, separando astrattamente la “convinzione” ottenuta manu militari da quella che si ottiene attraverso la stessa forza della parola, del controllo, e del dominio sulla parola. Molti sono gli esempi contemporanei in cui l’impero sopravvissuto ha mostrato di possedere sufficienti mezzi per indurre “pacificamente” al suicidio il non-uguale. Ma è proprio l’impotenza dell’impero superstite a costruire un nuovo Ius gentium che ha risvegliato il Pólemos come forma normale della relazione fra gli altri.
È stato il caso non eventuale del Pólemos russo in Ucraina – la vita è diventata la posta in gioco della politica – che ha mobilitato tutto l’impolitico ad essere politicizzato. È la sovranità difesa/aggredita – la vita come tale, la nazione, il luogo di nascita – con l’incondizionata esposizione alla morte, cioè la nuda vita, la sola forma in cui la vita come tale può essere politicizzata. Un risultato imprevedibile per l’occidente! Nella “casa Europa”, nell’Occidente europeo – assoluto spazio rassicurante della gestione economica – la Stasis non resta più confinata sulla soglia del politico/impolitico, del dentro e il fuori, del Polis/Oikos, ma “si trasferisce all’interno della casa nella stessa misura in cui il vincolo familiare si estranea in fazione”. La forma è quella dello “stato di eccezione”, cioè quando il diritto, che è la forma del patto tra popolo e sovrano, è sospeso. Una sospensione che dissolve quel popolo unitosi nel sovrano o nella sua assemblea democratica, mettendo le basi del conflitto. È così che la Stasis pervade lo spazio e il tempo diventando paradigma di una “guerra civile mondiale” (Cfr. Giorgio Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo Sacer II, Bollati Boringhieri 2015).
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