Dalle mie parti, negli anni Trenta, viveva un tale di nome Giovanni Paneroni. Era un semplice gelataio ambulante, ma che aveva raggiunto una certa fama nazionale perché, con i gelati, vendeva nelle piazze idee strampalate e al motto “La terra non gira, o bestie!” propinava il suo terrapiattismo ante litteram e la sua fede in Tolomeo. Vagava con il suo carrettino tra Rudiano e Orzinuovi e, quando si fermava, srotolava i suoi lenzuoli e spiegava la sua idea di mondo, la sua cosmologia, il rapporto invertito che vi è per certo tra la terra, il sole e le altre stelle. E se qualche bambino obiettava che, però, a scuola, la maestra aveva detto… la risposta era perentoria e senza appello: “Asèn te e la to’ maestra!”.



La sua fama s’era tanto diffusa che i goliardi della Statale di Milano invitarono Paneroni a tenere una conferenza al Teatro Lirico. Poi, in migliaia, lo portarono in trionfo per le vie della città. Indro Montanelli ricordava spesso quell’episodio cui aveva partecipato e il valore politico della patafisica inconsapevole paneroniana. Tant’è che, nel 1983, a Palazzo Reale di Milano, nella straordinaria mostra “Alfred Jarry e la patafisica”, Paneroni ebbe un suo spazio significativo. Valore politico: sì, perché il regime tanto non l’amava quel matto. E Mussolini, in visita a Brescia, in occasione del suo discorso nella nuovissima piazza Vittoria, lo fece allontanare e controllare. Non si sa mai che da un carretto di gelati piazzato al punto giusto scaturisca qualcosa di sconveniente per il fascismo e la sua cultura…



Di Paneroni si è parlato a lungo, grazie innanzitutto alle opere di Enrico Mirani; su di lui sono state discusse tesi di laurea, si son tenuti convegni eccetera. Certo, non sul valore delle sue idee strampalate, ma perché, in un’Italia monocromatica, quel germe di controcultura che riscaldava i cervelli dei giovani studenti costituiva un’alternativa, una voce fuori dal coro, una possibilità di libertà del pensiero.

Ora, mi è tornato in mente Paneroni, di fronte allo spettacolo strampalato che sta dando, proprio sul versante opposto a quello della libera fantasia di un gelataio, la scienza cosiddetta seria e ufficiale, quella in cui si deve credere. E lo ripeto, si deve credere. Quella insomma dei postulati, delle azioni e delle reazioni, delle ipotesi e delle tesi, dell’osservazione, della sperimentazione, quella del metodo e delle leggi, quella di Galileo, di Copernico, di Newton, di Pasteur, di Fleming, di Watson e Crick, quella che un grande storico della scienza come Vincenzo Cappelletti, scomparso giusto qualche mese fa, definiva – citando Paolo VI – il luogo in cui l’uomo “cerca di comprendere se stesso e il mondo” e che tuttavia rischia sempre di scivolare, intrisa com’è di rivoluzione e di illuminismo, verso “la natura lucreziana e stoica, in un’accezione arcaico-mitica, disinvoltamente collegata con la nuova prospettiva meccanica”.



Lo spettacolo cui abbiamo assistito e stiamo assistendo, con la pervasività pelosa dei sapienti divenuti, forse loro malgrado, intellettuali catodici, che hanno portato alla ribalta mediatica le loro legittime ipotesi differenti, trasformandole in battibecchi salottieri e soprattutto sotto il naso di tutti (quindi intrinsecamente abbassandole al rango di opinioni), ha annullato nella coscienza collettiva, nella pubblica opinione, così come l’aveva classificata Habermas, l’aura necessaria alla difesa dello spazio scientifico dal bailamme generico e inconcludente.

Quel che Cappelletti richiamava quando citava la “natura lucreziana e stoica” e la fiducia incrollabile, dunque ideologica, nel mondo mitico dell’illuminismo, stava proprio a indicare il rischio che la mitizzazione della scienza comporta. Un po’ come avevano fatto a suo tempo Horkheimer e Adorno laddove rintracciavano nella radice irrazionale del padre di tutte le ideologie, quell’illuminismo apparentemente liberatore di ogni razionalità politica e sociale, il seme della sua contraddizione irrazionale e mitologica. Basta l’incipit di Dialettica dell’Illuminismo per comprendere il senso di tale mitizzazione: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”.

Ogni forma di mitizzazione porta con sé inevitabilmente il suo contrario: la demitizzazione. E per la scienza tale processo, in una direzione o nell’altra, è mortale. Si tratta in definitiva, di sottoporre il discorso scientifico al più grande dei rischi: quello di portarlo fuori dal perimetro ben definito della disciplina, alla ricerca del consenso. Ma si tratta d’altro canto di esporla. A farne le spese è proprio quella certezza di razionalità con presunzioni politiche che, oltre tale perimetro, si scioglie come burro al sole. Per dirla con Michel Foucault, “entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false; ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più e meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memoria; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia colla storia del sapere” (L’ordine del discorso).

La procedura dell’esportazione del discorso scientifico sul piano più propriamente mediatico, con i continui ricorsi ad una categoria assai poco scientifica qual è il buon senso, ha dunque prodotto un mostro non solo semantico (la riduzione della parola tecnica a parola fatua), ma perfino una sorta di barzelletta della rappresentanza. E non c’è nulla di più pericoloso di uno scienziato ridicolo. Perché il rischio è proprio che oltre lo steccato della disciplina, con la sua aura e il suo ordine di discorso, il luminare vale quanto Paneroni, anch’esso portatore, a modo suo, di un discreto bagaglio di buon senso. Il Discorso sul metodo di Cartesio prende le mosse proprio dalla definizione del buon senso: “Il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita: ciascuno, infatti, pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili a contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più”. Cartesio è convinto che buon senso sia sinonimo di ragionevolezza. Dono comune a tutti gli uomini – la ragione – elemento distintivo rispetto agli animali. Tuttavia è nell’uso che se ne fa che le questioni si complicano.

Nello sterminato arengo mediatico, la cessione alla popolarità di frammenti sempre più ampi di discorso ha comportato una tale dilatazione dello spazio del buon senso da renderlo irriconoscibile e certamente lontano anni luce dalla fede cartesiana nella ragionevolezza.

Quello cui abbiamo assistito (e stiamo assistendo) è stato insomma un generale disfacimento della “politica dell’enunciato scientifico” che si è tradotto, inevitabilmente, in un significativo indebolimento degli “effetti di potere [che] circolano fra gli enunciati scientifici” (Foucault, Microfisica del potere). La scienza, insomma, ha come rinunciato alla propria prerogativa di “Società di discorso”, accettando di mescolarsi – dunque di confrontarsi pur non volendolo – nel bailamme generalizzato, con ogni forma di paneronismo, contando proprio, ideologicamente, sulla ragionevolezza e sulla forza intrinseca del mito.

“Noi scienziati…”. “Io come scienziata…”: abbiamo sentito così tante volte ripetere con compiacimento quest’affermazione di status, da provarne fastidio. Eppoi la telecamera è impietosa, coglie il piego delle labbra e lo sbattere delle ciglia. Il problema, per i “noi scienziati…” è che cresce, parallelamente al loro ego professionale, il grido paneroniano “Asèn te e la to’ maestra!”. Il rischio, a ben vedere, nella sommatoria delle parole e delle immagini, non è l’allontanamento di default – come sempre è avvenuto e come dovrebbe sempre avvenire – di Paneroni dai perimetri della scienza, ma il progressivo ingresso di questa, sorretto da un buon senso tanto vasto quanto narcotizzato, entro i molli confini della patascienza.

Ad una pandemia (quella del virus) si è contrapposta un’altra pandemia (quella di tutti gli “ologi” della Nazione) che a suon di gomitate, di cose dette e rimangiate, di errori corretti ancor peggio, di consulenze, interviste, interventi, controinterventi, appelli, controappelli, ospitate ad ogni ora del giorno e loro repliche sulle infinite reti pandemiche, ha spappolato il discorso della scienza in mille rivoli, in altrettanti tic professionali, in rese dei conti personali spesso inquinate dalla politica, in reminiscenze universitarie e ospedaliere, diventando così i migliori alleati del nostro Paneroni.

La patafisica di Jarry, con il suo Ubu le roi e la sua “scienza delle soluzioni immaginarie” ha tutti i diritti di ascrivere Paneroni all’Olimpo dei propri epigoni e perfino di esaltarne la forza creatrice dentro una società di discorso fascistizzata e malinconica. Ma quando la scienza sveste il camice, sbaglia i numeri (grande preoccupazione cartesiana tanto da diventare la quarta regola del metodo), si mostra salottiera e familiare, mescola piani di discorso, litiga al suo interno, diviene oggetto di satira (come dimenticare i personaggi crozziani?), insomma, quando la scienza-mito si mostra come un re nudo e un poco sovrappeso… beh, l’apparente retta via del buon senso invocato ogni due per tre rischia di diventare, in men che non si dica, la porta spalancata del non senso. Il gelataio e lo scienziato catodico scoprono, forse con stupore reciproco, di avere la medesima cittadinanza. E non possiamo certo esserne contenti.

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