Scrivere di dialogo vuole già dire dialogare, cioè condurre un percorso di scoperta e di messa in discussione, almeno a due. È quello che fanno Ugo Volli e Vittorio Robiati Bendaud in Discutere in nome del cielo. Dialogo e dissenso nella tradizione ebraica (Guerini e Associati, Milano 2021). Lo fanno, come recita il sottotitolo del loro bel volume, “nella tradizione ebraica”, riuscendo, peraltro, ambedue, a restituire pienamente il valore universale del dialogo, che, come spiega bene Volli, con una citazione celebre di Lévinas, non è qualcosa che si fa, ma la dimensione profonda del nostro esserCi.
È così, e lo è manifestamente, anche e soprattutto per il dialogo autenticamente religioso, che parrebbe quello prigioniero di una verità definita e intangibile. Ed è così proprio perché, come ricordano i due autori, “la Rivelazione segue lo stesso cammino”, con la Verità, che se è in sé monologica, si apre a noi solo in chiave dialogica, come un dialogare del Divino con l’uomo, dove quest’ultimo non può da se stesso definire le parole del Primo. Non è un cedimento al relativismo, ma l’ammissione profonda che la verità è “lotta per la verità”; e qui – i due autori me lo permetteranno – sovviene il detto scolastico “Deus semper maior!”.
Dialogare significa necessariamente mettersi in discussione, accettare di mettere alla prova le proprie convinzioni e accettare che l’altro possa avere ragione o, quanto meno, delle ragioni. Per usare un termine che nel testo non è presente: le convinzioni autenticamente religiose non sono una “ideologia”, che è quel che Vögelin osserva circa le “religioni politiche”, che sono, poi, o filosofie politiche chiuse e indiscutibili (come il marxismo e, al suo orripilante modo, anche il nazionalsocialismo) o religioni rivelate trasformate in fanatismo totalizzante (come l’islam politico).
Per tornare al nostro bel volume, è interessante notare come Volli rimarchi con chiarezza la differenza di percorso tra Israele (messo prima, perché più antico) e la Grecia. Nella Bibbia “il dialogo ha una valenza non gnoseologica ma etica” (p. 25), è cioè diretta non alla scoperta e all’elaborazione di una verità (come in Grecia), ma a indirizzare e giudicare dei comportamenti. Qui Volli indica alcuni modelli: il serpente e Caino, anzitutto; Abramo, poi, e, ancora, Mosè, il Roveto ardente… Tutti casi esemplari, in cui si vede come, nella Bibbia, “gli uomini possono, anzi devono, discutere con Dio sulle questioni etiche” (p. 40), cioè sulle loro scelte di vita e di condotta.
Dall’interloquire del Divino, caratteristico dell’universo biblico, si distingue il dialogo finalizzato alla persuasione, che ha il suo modello più perfetto in Platone, sia sul piano formale che su quello dell’impianto gnoseologico: se il dialogo è ricerca della persuasione e, per ciò stesso, della scoperta di una verità gnoseologica, si deve riconoscere che il protagonista principale – quello che chiede e mette in questione, attraverso l’ironia e la maieutica, cioè Socrate – “non sempre vince” (p. 57). A che cosa serve allora discutere? A conoscere una verità, a cui, poi, la condotta dovrà conformarsi, attraverso l’educazione.
Difficile, però, intendere sino in fondo il valore culturale del dialogo se ci si ferma a questi due momenti iniziali. Tutta la storia dell’ebraismo rivela questa tensione e risulta essere un contributo decisivo alla questione del dialogo in presenza del “dissenso”. Dissentire dialogando significa trovare un criterio di riferimento quando il testo originale si apre a interpretazioni differenti, se non divergenti. L’interpretazione è sempre su dei testi, ma questi non sono tra loro paritetici. Il Talmud interpreta la Torah, ma la Torah è assolutamente centrale. Si tratta, certo, di una delle forme più esemplari del “circolo ermeneutico”, ma anche del superamento di una prospettiva rigidamente trattatistica e assertiva. Se è pur vero che sull’interpretazione dei testi si genera nell’ebraismo la differenza tra le diverse correnti, “tradizionaliste” o “riformiste”, è altrettanto vero che l’identità non ne viene compromessa perché l’Origine rimane sostanzialmente inafferrabile: si può, cioè, non decidere! In una disputa ambedue le parti possono dire la verità, perché ambedue partecipano al processo della Rivelazione, in cui, da ultimo, non è l’uomo a parlare. È questa una prospettiva scandalosa per il pensiero greco, dal momento che parrebbe negare il principio di non contraddizione, ma che apre all’incontro tra tesi opposte perché, secondo la formula del Talmud, “un tribunale (futuro) possa usarle come precedente” (p. 81).
È questa la ragione per cui la cultura ebraica è plurale nella sua stessa essenza: si riconosce la propria comune identità, pur in presenza di opposizioni apparentemente insanabili.
Su questa pluralità, che è anzitutto storica, ma poi anche inevitabilmente filologica ed ermeneutica, si concentra la seconda parte del libro, in cui Vittorio Robiati Bendaud dà prova di straordinaria erudizione – nel senso migliore e più nobile del termine, restituendoci la cifra più profonda del dialogo nella Tanàkh, la Bibbia ebraica, al cui centro c’è la sacralità della Torah, che i cristiani – a differenza dell’islam – condividono con gli ebrei. È una storia del dialogo, quella che viene tracciata, ma anche della mancanza di dialogo. E non è un caso che la premessa – non scontata – sia rilevare che “il primo dialogo tra esseri umani nella Bibbia (…) è quello tra Caino e Abele”. Non ci sono i dialoghi tra Eva e Adamo, e “per come è raccontata l’intera vicenda, serpeggia ed è palpabile un serio problema di incomunicabilità” (p. 127)!
Dove non si dialoga – e vi è compreso anche il dialogare male – si apre lo spazio della violenza. Dove si dialoga, è perché c’è già qualcosa in comune, almeno il principio: Adamo ed Eva non erano ebrei; Noè, parimenti, non lo era. “L’essere umano non fu creato ebreo (o di qualsiasi altra fede)”, la sua dignità è, dunque, antecedente la fede religiosa (a differenza che nella tradizione islamica, dove – rileva l’autore – Adamo è il primo profeta dell’islam).
Riprendendo Giustino e i successivi Padri della Chiesa, in una prospettiva coerentemente ebraica, il volume rintraccia i primi, profondi segni della frattura teologica tra ebraismo e cristianesimo, per descrivere poi quella tra ebraismo e islam. Sono due capitoli densi e coltissimi, dove apprendiamo la fatica ebraica nel riconoscere la natura non idolatrica dell’islam, ma anche la straordinaria capacità di valorizzazione culturale, evidente, per esempio, in un’opera come Il Giardino degli Intelletti, di Rabbi Nathanael Ibn al-Fayyumi.
Proseguendo nella lettura, scopriamo che nel secolo XI, se Pietro il Venerabile, difensore del “progressista e razionalista” Abelardo, era ostile ai giudei, Bernardo di Chiaravalle non lo era affatto, tanto da predicare la crociata in questi termini: “È bene che andiate a combattere i musulmani. Invece, colpire un ebreo per prendergli la vita, significa scagliarsi contro Gesù stesso”; e ancora: “Andiamo e saliamo verso Sion, alla tomba del nostro Salvatore, ma guardatevi dal parlare ai giudei, in bene e in male, perché toccarli significa toccare la pupilla dell’occhio di Gesù, perché essi sono le sue ossa e il suo sangue” (p. 170).
La storia successiva dell’Occidente prosegue in questa relazione dicotomica, in cui al crescente sentimento antigiudaico, che spesso sfocia in persecuzioni sanguinarie, si accompagna l’ostilità teologica verso i testi con cui l’ebraismo interpretava la Tanàkh, la Bibbia ebraica (o, per i cristiani, Antico Testamento), in modo particolare il Talmud. Tuttavia “se a Parigi i testi ebraici furono mandati al rogo, vent’anni dopo, a Barcellona, nella prospettiva di De Penyafort e di Martì, si assistette invece a un recupero del Talmud”, sia pure di taglio apologetico (p. 205).
A sua volta, il mondo ebraico non cessa di riflettere sulla propria relazione con gli altri due monoteismi, quello islamico e quello cristiano. In riferimento a quest’ultimo si va affermando una prospettiva che riconosce nei cristiani la comunanza di essenziali articoli di fede. Così il rabbino di Amsterdam Ya’aqòv ‘Emdin già nel secolo XVII: “I cristiani hanno sradicato la ‘avodah zarà e rimosso l’idolatria dal mondo” (p. 192).
Infine, scopriamo con grande piacere che tra le figure “dialoganti”, di parte cristiana, si colloca Dante Alighieri, di cui ci sono riferiti i dialoghi con “Manoello Giudeo” e che, non a caso, nella Commedia non accusa mai collettivamente gli ebrei di empietà: Dante non mette gli ebrei all’Inferno e, quando ve li troviamo, è sempre e solo, come per i cristiani, per delle responsabilità specificamente individuali. E – come non notarlo – nella tappa finale del Paradiso Dante si fa accompagnare proprio da san Bernardo, il mistico “reazionario” che difese gli ebrei.
Un libro, quello di Volli e di Robiati Bendaud, da leggere e da studiare con attenzione, perché il dialogo tra ebraismo, cristianesimo e islam “è benedetto e necessario” e, di conseguenza, “deve essere chiaro, lucido, leale”, cioè esigente, proprio per evitare la violenza di cui la Bibbia parla nelle sue prime pagine – ed è la premessa della seconda parte del volume – quando racconta dell’omicidio con cui si conclude il mancato dialogo tra fratelli.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.